Basterebbe concentrarsi sul momento dell’ingresso al Gran Theatre Lumiére alla proiezione ufficiale in prima mondiale del film per riassumere in un solo bruttissimo e paradigmatico gesto quello che è il primo e più insormontabile problema di Le jeune Ahmed, che giungerà in Italia con il titolo fantasiosamente malickiano L’età giovane. Un gesto che, per quanto pizzicato dalle telecamere del Festival di Cannes e proiettato sullo schermo, nella concitazione del momento – chi impegnato a girarsi verso i registi e gli interpreti per accoglierli con un applauso nella loro ultimissima tappa del loro montée des marches dal fondo della sala verso i posti d’onore, e chi indaffarato a spegnere frettolosamente il computer o lo smartphone sul quale stava lavorando durante la lunga attesa1 – hanno probabilmente colto in pochi. Mancavano ormai pochi metri all’arrivo del cast alla fila riservata, mancavano pochi passi prima che si sedessero consentendo alle luci di spegnersi, quando il giovanissimo e trepidante protagonista Idir Ben Addi, camminando nello spaesato e affascinato guardarsi intorno di chiunque metta piede per la prima volta nel colossale GTL gremito, figuriamoci chi ci entra a tredici anni, finisce per sbaglio per sopravanzare nella loro marcia in testa alla delegazione uno dei fratelli Dardenne, frapponendosi per un momento in mezzo a Jean-Pierre e Luc. Fin qui nulla di male, ovviamente, se non fosse che quello rimasto indietro dei due fratelli registi belgi, che invece nella colossale sala cinematografica più importante del mondo stavano entrando per l’ottavo film consecutivo dal 1999 della Palma per Rosetta, per pronta risposta non si fa il minimo problema a prendere il ragazzino per una spalla e a ritirarlo dietro di sé, rispondendo ai suoi occhi perplessi con un’alzata del mento e con un arrogante gesto della mano a indicarsi, «Parce que c’est moi», e il resto sottinteso della frase lo ha sempre detto in italiano Alberto Sordi ne Il marchese del grillo. Un gesto autoritario, inelegante, spocchioso, gratuito e a suo modo crudele nel ristabilire le gerarchie, come a dire che il re(gista) veterano non può essere superato da un attore nemmeno se è un bambino emozionato. Ma soprattutto un gesto inaspettato, quasi opposto alla filmografia da sempre profondamente sociale dei Dardenne, che nel loro tipico stile sobrio e realistico a seguire i personaggi in lunghi pedinamenti con la macchina a mano sempre avevano dimostrato una certa vicinanza ai loro protagonisti nei drammi che li avviluppano nel deflagrare di licenziamenti, miserie e soprusi, in un reale tentativo di comprenderne le difficoltà e le debolezze immergendosi nelle contraddizioni del loro mondo e ponendosi più o meno apertamente dalla loro parte.
Tanto che da Le jeune Ahmed ci si sarebbe potuti magari aspettare un ulteriore e fisiologico calo dell’ispirazione, dell’urgenza e della potenza che nel corso degli anni ha progressivamente depotenziato il cinema degli autori belgi nelle ripetizioni di uno schema collaudato e sempre uguale a se stesso, e forse i più pessimisti e i più violenti detrattori del precedente e già debole La ragazza senza nome si sarebbero potuti aspettare anche un calo nella lucidità degli autori nell’altrettanto progressivo e fisiologico avanzare della loro età anagrafica. Nessuno si sarebbe mai potuto aspettare però che Le jeune Ahmed si sarebbe rivelato altrettanto opposto, per quanto sia fin troppo coerente con le rigorose forme di messa in scena e con le consuete corse dardenniane verso un punto di rottura da cui scandagliare una porzione umana e sociale (questa volta con superficialità e approssimazioni ancor più imperdonabili di fronte alla delicatezza del tema proposto, la radicalizzazione), alla filmografia dei registi. Fino a costituire la prima e insospettabile crepa nella loro, evidentemente ormai non più inattaccabile nell’evidente crisi che sta attraversando il loro cinema, integrità morale.
Perché è un film profondamente sbagliato nella scrittura, Le jeune Ahmed, per nulla credibile nel suo approccio a un realismo totalmente vanificato dagli stereotipi, dalle forzature narrative tirate per funzione meramente strumentale, dalle approssimazioni di ogni sorta a partire dall’anonimità del luogo che anziché universalizzare toglie il contatto con la realtà, dai presunti dati di fatto incontrovertibili quanto superficiali. Un film troppo frettoloso e schematico nel mettere sul piatto i personaggi e le relative granitiche caratteristiche destinate a non mutare mai, a meno di drammatiche tragedie, per tutto il corso della narrazione, e soprattutto un film totalmente disinteressato – ed è qui che il brutto gesto dei Dardenne di questa première contro Idir Ben Addi quasi pare un intento programmatico – a creare una qualsiasi empatia con il piccolo protagonista, mai nemmeno per un attimo davvero umano nella sua monolitica ossessione religiosa, o per lo meno non totalmente lobotomizzato nel suo prendere alla lettera e senza mai alcun tipo di interpretazione le parole, a loro volta stereotipate e ripetute sempre uguali, del locale imam.
I Dardenne, o quel che ne è rimasto in questo sostanziale pamphlet xenofobo, preferiscono averne paura, tenerlo a distanza, giudicarlo, arrestarlo, isolarlo, disprezzarlo. Preferiscono ridicolizzarlo nel dipingere la sua maniacale ostinazione nelle preghiere, il suo pallino omicida nei confronti dell’insegnante non abbastanza musulmana a causa della sua apertura alla tolleranza e quindi bollata come «apostata» da giustiziare a costo di trasformare uno spazzolino da denti in coltello anche quando già si trova in cella per averla aggredita e cercata di uccidere, e le sue ripetute e fanatiche abluzioni ogni volta che viene a contatto con un qualcosa di «impuro» compresa la saliva del primo bacio, apice dell’inutile e posticcio escamotage narrativo dell’ultima parte con una storia di impossibile non-amore fra gli unici due giovani della fattoria dove Ahmed viene spedito dall’istituto di correzione dopo il tentato omicidio fra le mura scolastiche. Un innamoramento, quello di lei nei confronti di Ahmed, totalmente implausibile e immotivato, calato dall’alto solo per dare al ragazzo l’occasione di rifiutare la bella bionda proponendole la conversione, a confermare ancora una volta come il suo unico amore continui a essere l’Islam più radicale e violento senza alcuna possibilità di scampo e redenzione. A meno della tragedia, con l’evasione per tendere all’insegnante l’ultimo e decisivo agguato, con l’arrivo sotto la sua abitazione, con la malsana decisione di arrampicarsi sulla facciata e con l’inevitabile caduta, che quasi sembra un autoremake non dichiarato de Il ragazzo con la bicicletta, e con quelle scuse non si sa se mosse da reale pentimento che arriveranno solo quando è ormai troppo tardi, con Ahmed molto probabilmente destinato alla paralisi.
Sono tutti personaggi monodimensionali, del resto, quelli di Le jeune Ahmed, senza mai una sfumatura, senza mai un’ambiguità, senza mai un cambio di prospettiva né un percorso di crescita, ma semplicemente “buoni” o “cattivi”, “normali” o radicali, dove è solo la loro rapporto con la Fede il punto che interessa ai Dardenne. Come una tesi che non ha né le necessarie antitesi né reale punto di sintesi, e che tratta il fondamentalismo religioso come se fosse un germe inestirpabile e come se dopo che ha attecchito non avesse più nemmeno senso ragionare, ma si potessero solo registrare i suoi effetti sulle turbe adolescenziali. Jean-Pierre e Luc Dardenne sembrano quasi prendere di peso e ricontestualizzare in Europa, in una maniera della maniera senile e svogliata che la svuota di ogni ambigua contraddizione e gonfia di approssimazione retorica ogni sua riflessione, la tematica già del più che buono Dear Son del “dardenniano” tunisino Mohamed Ben Attia, che gli stessi registi belgi anni fa hanno scoperto e lanciato come produttori. In potenza sarebbe potuta essere la risacca dell’onda che ha portato fino al Maghreb le strutture narrative, il linguaggio, il realismo e l’etica di sguardo e di messa in scena tipica dei fratelli a ritrovare negli ultimi anni, lontano da loro, la primigenia urgenza degli esordi nei nuovi esordi in un altro e più burrascoso ambiente culturale e sociale, e invece a conti fatti nient’altro è stata che l’espressione, più o meno inconsapevole, di un inaspettato, inaccettabile e indifendibile messaggio islamofobo, che vorrebbe semplicemente essere una visione preoccupata e pessimistica del rischio fondamentalista ma finisce nella sua parabola per esprimere solo quel razzismo silenzioso e atavico che di fronte alla religione musulmana da sempre serpeggia per l’Europa. Compresa casa Dardenne, evidentemente, un indirizzo che tutti credevano immune e che invece altrettanto evidentemente non lo era.
Marco Romagna