7 UOMINI A MOLLO (2018), di Gilles Lellouche
Da quando Full Monty (1997, Peter Cattaneo) ha sdoganato la commedia maschile di superficiale impronta sociale tutta basata sullo spiazzamento culturale dei protagonisti, le occasioni cinematografiche fondate su tale meccanismo si sono moltiplicate. Lì un gruppo di uomini disoccupati si organizzava per esibizioni di spogliarello, qui si danno al nuoto sincronizzato. In realtà Le grand bain di Gilles Lellouche, passato fuori concorso al Festival di Cannes 2018 e in uscita in Italia con il titolo 7 uomini a mollo, appare debitore non solo di quello spropositato successo britannico, ma si configura piuttosto come il frutto di varie tendenze canalizzate in un unico progetto filmico. Come spesso ci ha abituato la commedia a qualsiasi latitudine, il gruppetto scalcinato di uomini che si confrontano con avventure “picaresche” costituisce praticamente un assoluto narrativo capace di accomunare (per amplissima astrazione, sia chiaro) I soliti ignoti o Amici miei di Mario Monicelli con numerose opere degli ultimi 20 anni britannici, senza tralasciare alcune declinazioni degli ultimi anni italiani (potremmo citare alcuni dei film di maggiore successo delle ultime stagioni, interpretati e/o diretti da Edoardo Leo, dalla saga di Smetto quando voglio a La mossa del pinguino, a Noi e la Giulia).
Spesso, a corroborare tali operazioni più recenti subentra anche una sorta di giustificazione sociale, ossia il quadro dove queste commedie srotolano il loro racconto è sempre sommariamente tratteggiato in rapidi e superficiali agganci alla realtà contemporanea. In genere è la disoccupazione, l’arte di arrangiarsi, la sopravvenuta assenza delle sicurezze economiche a spingere i protagonisti a imprese impensate. Tuttavia Gilles Lellouche sembra declinare tale tendenza con preciso atto di indigenizzazione rispetto al panorama della sua commedia nazionale. Se il cinema britannico è orgogliosamente affezionato all’orizzonte proletario (ivi compreso Full Monty), di contro Lellouche predilige l’orizzonte borghese, piccola o grande, di tanta commedia francese. Il disorientamento, o depressione conclamata, che colpisce i suoi personaggi prende corpo non nel disagio di chi ha lottato con il bilancio domestico per una vita intera, ma piuttosto nella sopravvenuta povertà di chi non è abituato a sguazzarci in mezzo, o al massimo di chi ha vissuto con sogni di imprenditoria puntuamente fallimentari. Di nuovo, anche 7 uomini a mollo si confronta insomma con quell’universale cinematografico che dal 2007-08 a oggi è diventato una costante internazionale: la riflessione sulla crisi economica globale e sulle sue ricadute umane, che oramai attraversa il cinema di ogni dove secondo letture le più diverse (autoriali, “di genere”, commerciali).
Gilles Lellouche coglie e rinnova tale occasione narrativa riassumendola nell’incipit come rapida premessa al racconto, che non ha grandi pretese e si propone nient’altro che far fare due risate al pubblico mettendo in scena un gruppo di uomini che si dedica al nuoto sincronizzato, disciplina tradizionalmente femminile. Nessuno sguardo in profondità, nessuna intenzione di indagare davvero figure umane e il loro panorama sociale. Solo meccanismo comico e divertimento. Tuttavia, da inizio a fine il film si articola su una struttura talmente formulare da annullare, a poco a poco, anche la possibilità dell’intrattenimento. Di fatto Gilles Lellouche compone il suo film di luoghi comuni e risaputi meccanismi, a cominciare dalla retorica dello “scemo del gruppo” rimessa in scena secondo schemi frusti e vecchi come il cinema. Forse il difetto maggiore di Le grand bain risiede nella sua scarsa convinzione rispetto a un vero progetto di commedia sociale, e al contempo nella sua debolezza riguardo a un’idea di commedia astratta e assoluta. Così, i suoi protagonisti rapidamente disegnati su un fondale sociale si comportano in realtà come vecchie maschere fuori dal tempo, senza mai tenere in grande considerazione la credibilità delle situazioni. Domina da inizio a fine l’istrionismo, l’azione attoriale votata all’esibizione di sé in una selva di manierismi di recitazione (un esempio fra i tanti, il discorso pre-gara di Benoit Poelvoorde).
Come prevedibile, buona parte del divertimento di Le grand bain sarebbe affidato allo spiazzamento culturale di vedere un gruppo di uomini dedicarsi al nuoto sincronizzato. Sta qui infatti la trovata per uscire dalla depressione che un gruppetto di uomini assortiti prevedono come possibilità di svago e riscatto. Di nuovo, si sprecano i precedenti di commedia sull’ensemble scalcinato che si dedica a imprese sportive (basti pensare, in ambito francese, a Dream Team, 2012, di Olivier Dahan). Qui, Lellouche incrocia la commedia sportiva maschile con la (presunta) bizzarria dovuta alla scelta di una disciplina in genere ad appannaggio delle donne. Novelli Billy Elliott adulti che invece della calzamaglia preferiscono il costume da bagno, gli uomini di Le grand bain subiscono ovviamente battute e doppi sensi, nell’ordine di un divertimento decisamente stanco e preconfezionato. Non mancano anche alcune aperture al cinismo e al politicamente scorretto, che tuttavia in un contesto così impersonale sortiscono l’effetto di irritare e distanziare. In sostanza, Le grand bain/7 uomini a mollo si risolve in un miscuglione commerciale, legittimo nelle sue scelte, ma che per essere apprezzato dovrebbe forse presentare qualche tratto di maggiore personalizzazione. Ne è prova anche la gestione fortemente meccanica delle singole storie dei protagonisti, che si alternano rigidamente nel racconto senza grande inventiva. Non giova al film nemmeno la sua lunga durata, e più in generale si registrano vari sprechi di talento, a cominciare da Mathieu Amalric, un po’ più protagonista degli altri, sempre bravissimo ma decisamente sottoutilizzato rispetto alle sue potenzialità. Eppure il pubblico ride. Noi un po’ meno. Succede.
Massimiliano Schiavoni