«Consumami distruggimi è un po’ che non mi annoio
Oh oh oh oh
Aspetto un’emozione sempre più indefinibile, sempre più indefinibile
Teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi
Se tu, se tu ti proponessi di recitare te
Emilia paranoica»CCCP-Fedeli alla linea – Emilia Paranoica
«L’ho uccisa, non lo nego, colpendola al collo con mano armata di spada». Ma non è il crimine ciò che conta. Nel folgorante e audace esordio al lungometraggio con cui il classe ’93 Gipo Fasano innesta e riscrive Le Eumenidi nella contemporaneità dei Parioli, il delitto può essere al massimo una generica confessione attraverso le parole antiche e sempre attuali di Eschilo, forzatamente fatte recitare al tenebroso protagonista di fronte alla platea deserta di un teatro chiuso nella notte. Può essere al massimo una mano fasciata della quale fornire ogni volta spiegazioni differenti, può essere al massimo la realtà virtuale di un videogioco, può essere al massimo una mappa del GPS impazzita che ormai si è persa e vaga in tondo e di traverso sui tracciati inquieti delle strade della Capitale. Il crimine, anzi, può e deve rimanere fuori dal campo, nei ricordi e nei turbamenti, in un ideale Le Coefore ancora tutto da pensare, scrivere e girare. Non serve conoscerne la reale natura, perché conta solo come passato, come trauma, come punto di origine, e paradossalmente potrebbe pure non esistere, ma essere un mero fantasticare, un incubo, un sentimento oppressivo. Quel che importa è invece ciò che viene dopo il delitto: il senso di colpa, il vuoto, la persecuzione. La costante costrizione a una fuga che probabilmente non porterà mai da nessuna parte, perché è impossibile fuggire da se stessi. È qui che si innestano le moderne Erinni interiori di Fasano, realizzate praticamente senza budget (meno di 9000 euro) con un paio di telefoni cellulari, qualche amico disposto ad apparire e una fortissima idea autoriale, e presentate fra i Riflessi della 15ma Festa del Cinema di Roma. Eppure, a partire dal protagonista che si chiama Valerio e non Oreste, o se si preferisce dall’esplicita citazione del Pier Paolo Pasolini degli Appunti per un’Orestiade africana che apre il film con quella che, di Eschilo, già era una mera preparazione destinata a diventare liberissima rilettura contemporanea, Le Eumenidi non vuole rimettere in scena la terza parte dell’Orestea, ma la vuole rievocare, riadattare, rivisitare, vivere, studiare, capire fino in fondo per rintracciarne il riecheggiare eterno nella modernità. Con la perfetta divisione della tragedia in prologo, parodo, i tre episodi inframezzati dai due stasimi e l’esodo (auto)assolutorio in cui le Erinni in qualche modo si trasformeranno nuovamente nelle più benevole Eumenidi, ma anche con una ben precisa ricerca sulla finzione e sul reale, che mette in scena non-attori nel sostanziale ruolo di loro stessi – persino il ristorante in cui lavora il protagonista è realmente quello di proprietà della sua famiglia – per contrapporre l’inquietudine giovanile ribelle e autodistruttiva all’immagine borghese che si ha della Roma “bene”, le bestemmie più accorate alla folla accorsa in piazza per la Via Crucis papale (o in curva per la partita della Roma, che per molti versi è la stessa cosa), l’eversione del pippotto/pucciotto al cordone ombelicale della madre che chiama proprio in quel momento sul telefono adibito a pianale.
Del resto è tutto un film di punti di rottura e di aperte antitesi, Le Eumenidi. Un film ambizioso e iconoclasta, complesso e seducente, teorico e intimamente anarchico, che nella sua totale indipendenza eversiva e underground non ha paura alcuna di spingersi fino al limitare del provocatorio, e che proprio attraverso il suo continuo separare, distruggere e riscrivere tanto la realtà quanto le forme di un passato da rinnovare – cercando in qualche modo nel suo strabiliante bianco e nero low cost una sintesi fra la frammentarietà di Romano Scavolini (torna più volte alla mente A mosca cieca) e la tossicità errabonda di Claudio Caligari, o se si preferisce fra l’assoluta libertà simbolica e formale di un Glauber Rocha e la psichedelia sfasata del Girotondo, gira intorno al mondo di Davide Mamuli – riesce a delineare con dirompente e ipnotico ardore tanto la finzione, i giochi di rimando con la vicenda di Eschilo, quanto il vero, come vero era il documentario di appunti di Pasolini. Con la differenza che l’Africa in fase di decolonizzazione a cavallo fra i Sessanta e i Settanta è qui la Roma di oggi, ri-colonizzata dal capitalismo e dagli epicentri del potere, dalle gentrificazioni e dall’identificazione sociale dei quartieri con il censo di chi li abita, dalla tecnologia e dagli avatar virtuali che ormai, in una società digitale, sempre più si sovrappongono alle persone. Una Roma notturna e maledettissima, dove anche le scimmie dello zoo e una manciata di statue di cani ringhianti possono rappresentare il senso di colpa e di persecuzione, dove si fuma erba nelle cucine dei ristoranti e si pippa cocaina facendo i pazzi al volante, dove la bestemmia è un semplice intercalare e solo cantare a squarciagola Il mare d’inverno con Loredana Berté all’autoradio può dare una breve illusione di libertà. Una Roma in cui è impossibile fuggire dai confini del Raccordo e al contempo, all’interno, è altrettanto impossibile trovare se stessi, chiusi in fiumane di persone tanto imponenti da renderle anonime e spersonalizzate, oppure del tutto soli a tentare invano di recitarsi su un palco senza spettatori. È qui che Fasano innesta la propria oscura ricognizione antropologica e mitologica dei Parioli, fatta di malessere giovanile e della sconsacrazione di ogni rito, di eversioni e di spirali distruttive, di grida e di silenzi, di annullamento nella massa e di spasmodiche ricerche di una sospensione, di una via di fuga, di un breve momento in cui smettere di pensare. Non c’è più la saggia giustizia dei dodici dell’Aeropago ateniese, non c’è più la Dea Atena pronta a esprimere il voto decisivo per l’assoluzione di Oreste: si è da soli nel mucchio della realtà, e da soli bisogna giudicarsi. È per questo che sin dall’incipit Le Eumenidi cerca ogni possibile via per espandere i confini del reale, per allargare le percezioni, per distruggere l’immagine popolare altolocata del ricco quartiere romano e restituirla più vera e puntuale in tutte le sue contraddizioni, in tutto il suo disagio che in qualche modo la fa scendere dalla collina e la riporta a terra. Con le grafiche del testo a video che accompagnano le gracchianti parole di Pasolini, con il videogioco che nella sua virtualità e realtà aumentata è forse l’unico possibile sguardo sul crimine, con la freccia del navigatore che non sa più raggiungere alcuna meta, e poi con quel mosaico di pixel che introduce il protagonista prima che le immagini continuino ancora per un po’ a frammentarlo, fra i dettagli del suo corpo e la penna, fra la misteriosa mano fasciata e la sigaretta fra le labbra, fra i registri delle prenotazioni del ristorante in cui lavora e la carne da battere.
Le numerose sperimentazioni linguistiche e visive, con la straordinaria fotografia di Domenico Boscovich che rende le immagini dell’iPhone un noir metropolitano e con il montaggio che nelle mani di Riccardo Giannetti finalmente ritorna specifico filmico, trasformano in qualche modo in pura avanguardia anche il pop delle canzoni di Renato Zero e Gabriella Ferri; le pisciate in strada da ubriachi sbattono in faccia alla formalità gentile e meccanica da tenersi sempre di fronte ai clienti, e le immagini ‘rubate’ al cinema, in strada e allo Stadio Olimpico si frappongono all’aperto metacinema degli amici (che poi, a ben vedere, nient’altro sono che altre Erinni pronte a invadere la vita e gli spazi di Valerio trascinandolo lungo il sentiero di perdizione) mentre giocano a rifare Dragon Ball nella cucina del ristorante. Persino La traviata irrompe con le sue arie liriche in discoteca, a separare il vedere dal sentire proprio mentre le uniche (se si esclude il rosso dei cartelli in greco antico) macchie di colore di tutto il film squarciano e ulteriormente frammentano l’immagine. Il reale viene letteralmente capovolto, i fermo-immagine cristallizzano la narrazione, l’immaginazione modifica le percezioni e le porta con sé al di là di ogni consuetudine e di ogni prassi consolidata. Le telefonate possono essere solo in audio mentre le ombre si allungano nell’oscurità, qualche sparuto frammento del testo di Eschilo viene lasciato libero di inondare il quadro, mentre i testi delle canzoni diventano doppi sottotitoli che in qualche modo abbracciano le immagini dall’alto e dal basso, da RH negativo a Te possino dà tante cortellate, da I maschi a Manichini. Ma se la lingua filmica, proprio come le Erinni, continua a spostarsi e a riplasmarsi all’inseguimento di nuove forme, nemmeno Fiumicino potrà portare il protagonista da qualche altra parte. Né alle Eumenidi, né a una sorella, né a una fuga. Solo a casa, senza mai uscire da Roma, dove la madre non c’è, ma a differenza di Clitemnestra uccisa dal figlio per vendicare il padre Egisto è regolarmente al lavoro. È il momento dell’assoluzione, forse, ma non per questo può dirsi finito il viaggio ossessivo e senza possibile meta di Gipo Fasano nella notte eternamente irrisolta dei sensi di colpa, che ibrida la tragedia classica con la precisione documentaria, il mito con l’antropologia, la realtà con la finzione e la finzione con il virtuale, il passato (di Eschilo, di Pasolini, di una colpa) con il presente di Roma Nord, e con il futuro di una forma cinematografica ancora tutta da esplorare e da riscrivere. È un film che sa osare Le Eumenidi, libero e inclassificabile, resistente e intrepido, che non accetta alcun tipo di patto o di compromesso. È un film che rischia con personalità e sfacciataggine, che rompe apertamente con ogni possibilità di industria e che consapevolmente ridiscute la grammatica stessa del cinema, la lingua delle immagini e dei formati, le attrazioni dei loro accostamenti. Un film coltissimo proprio perché gergale e quando capita volgare, che parte dalla culla del classico e alterna registri, che ragiona sulla tragedia greca e su Pasolini ma al posto del coro utilizza la canzone mainstream, che trova il cuore più intimo del reale nella finzione e la finzione collettiva in quella che dovrebbe essere la realtà, e che ribalta le unità aristoteliche di luogo, tempo e azione nell’estrema frammentarietà dei campi stretti e dei geniali raccordi. Un film ammaliante con il suo fascino magnetico e inafferrabile, che grida sfrecciando strafatto al volante per rivendicare la propria assoluta libertà in attesa di lanciarsi e volare fra il paracadute e la PlayStation. Nell’asfittico orizzonte italiano, un’opera prima che è semplicemente una boccata d’ossigeno, un lavoro da tenersi stretti di un giovanissimo autore da tenere in conto.
Marco Romagna