Non molti anni fa, con la totale casualità che quasi sempre accompagna le scoperte straordinarie, sono fortunosamente tornate alla luce le grotte di Chauvet Pont D’Arc. Incastonate fra il verde della montagna e l’azzurro del fiume, nel soleggiato sud della Francia, queste enormi grotte vecchie oltre 37mila anni non sono purtroppo visitabili, chiuse al pubblico per questioni di sicurezza e conservazione. Al loro interno, protette da millenni di frane e vegetazione, si trovano le più antiche pitture murarie esistenti, il primo segno tangibile del passaggio dell’uomo. Si tratta, in una visione romantica, della primissima forma d’Arte, se vogliamo del primo Cinema della Storia, attraverso il quale gli uomini del tempo imparavano a riconoscere animali e pericoli, e si esprimevano liberamente. Si tratta di materia, pietra, calcare, pigmenti, impronte di mani, fisicità.
Nel 2010, all’interno delle grotte di Chauvet, Werner Herzog firma il suo unico film in 3D, il capolavoro (ennesimo, nella sfavillante carriera del bavarese) Cave of Forgotten Dreams. La materia, nel 3D di Herzog, cerca e trova una nuova vita, restituita sullo schermo con la maggiore purezza possibile, mentre la vena documentaristica sublima dolcemente nella più profonda vis poetica. Oggi, a cinque anni di distanza, viene presentato in Piazza Grande a Locarno Le Dernier Passage di Pascal Magontier, installazione che ci riporta, in un apparente pianosequenza di 28 minuti, nelle grotte. Si parte dal buio, una voce fuori campo invoca la luce e le sue potenzialità espressive, mentre iniziamo a vedere quegli interni nei quali avevamo idealmente imparato a muoverci seguendo il regista teutonico. Stalattiti e stalagmiti brillano, si toccano e si fondono, mentre l’occhio, sinuoso, continua ad avanzare nelle grotte, fino alle pitture e ai segni del passaggio umano. È impossibile non paragonare i due film, visioni opposte dello stesso luogo: da un lato la fedeltà rispettosa di Herzog, dall’altra l’estetizzazione massima di Magontier, da un lato l’uomo come figura centrale, dall’altra la luce come oggetto di studio.
L’effetto di Le Dernier Passage, sullo schermo, è straniante e a tratti abbacinante, mentre ci addentriamo in soggettiva in quegli spazi fatati. Ma non riesce mai, a dispetto delle intenzioni, ad emozionare davvero, risultando ben presto drammaticamente finto: quegli stessi interni che avevamo visto da lontano, inquadrati dalle passerelle metalliche che segnavano e segnano l’unico percorso possibile, sono ora il risultato di un’animazione dei rilievi. Notevole alla vista, brillante ed esaustivo, splendidamente fotografato quanto efficace nella colonna sonora ambient, ma drammaticamente capace di svuotare totalmente tutta la parte concettuale di Herzog, il motivo stesso per il quale Cave of Forgotten Dreams esiste, il motivo per il quale è stato girato in 3D. Si perde la poetica, si perde la realtà, si perde l’umanità. La fisicità, quella necessaria realtà materica per riportare il segno dell’uomo, sparisce totalmente, lasciando il posto alla pura (e vuota) estetica di una fotografia cangiante creata al computer. Non c’è più la pietra dipinta da una mano millenni fa, ne stiamo vedendo una copia falsa, ricostruita digitalmente, che non esiste, come le animazioni che mostrano stadi che probabilmente mai verranno costruiti. Come fa, generalizzando il discorso al Cinema, la digitalizzazione forzata, che elimina la realtà tangibile della pellicola -insieme alla sua qualità e alla sua affidabilità- lasciando spazio a pixel, traballanti codec e file che potrebbero cancellarsi da un momento all’altro. L’installazione di Pascal Magontier è la computer grafica che vince, eliminando completamente la macchina da presa e quindi il Cinema. Quale sia il senso di un’operazione del genere, onestamente, ci sfugge. Ed è per questo che Le Dernier Passage, nonostante l’indubbia riuscita visiva dell’operazione e la ragguardevole cura fotografica, non siamo proprio riusciti a farcelo piacere.
Marco Romagna