Che bello Lazzaro felice! Che bello riscoprire un cinema italiano che non teme il fantastico, la fiaba allegorica, il tocco gentile di un discorso contingente e universale. In concorso al Festival di Cannes 2018, il terzo lungometraggio di Alice Rohrwacher si piazza con tutti i meriti tra i migliori visti finora, e probabilmente si lancia anche tra i favoriti alla corsa per la Palma d’Oro, che manca all’Italia dal lontano 2001, anno dell’ultima vittoria con La stanza del figlio di Nanni Moretti. Lazzaro felice ha innanzitutto il merito di rinnovare filoni dimenticati del cinema italiano, dal “realismo fantastico” zavattiniano al gusto allegorico della fiaba. Per giungere a questo, però, Alice Rohrwacher prende le mosse in un primo momento da un immaginario in qualche modo comune con il suo film precedente, quel Le meraviglie (2014) che a Cannes già conquistò il Grand Prix Speciale della Giuria. Un immaginario che sulle prime qui è retrodatato a un passato dalle coordinate non meglio definite, e che tuttavia ricorda il medesimo approccio al racconto. All’esordio, Lazzaro felice pone di fronte allo spettatore un universo del tutto credibile, messo in scena con la perizia e l’attenzione dell’indagine culturale. Si respira aria olmiana, l’approccio ricorda L’albero degli zoccoli (1978, curiosamente l’ultimo film italiano a vincere la Palma d’Oro prima di Nanni Moretti: la cabala sembrerebbe giocare dunque a favore di Alice Rohrwacher) ricollocato in una campagna dal forte accento d’Italia centrale. Ritorna pure l’utilizzo di un leit-motiv musicale ripreso dagli anni Novanta (ne Le meraviglie toccava ad Ambra Angiolini, qui alla musica disco), mentre i costumi alludono a epoche remote. Ma in questa sorta di idillio campestre, dove già si allungano cupe figure di aristocratici, subentrano poi piccoli segnali perturbanti (il brano di musica disco è solo uno dei tanti). Dall’orizzonte di “realismo poetico” si scivola a poco a poco in un universo difficilmente definibile, che troverà poi una sua leggibile coerenza nella seconda parte del racconto.
Lazzaro felice è infatti scandito su due blocchi narrativi ben distinti, il cui centro è occupato da una figura di ingenuo giovinetto, il Lazzaro del titolo, contadino discendente della famiglia di mezzadri protagonisti, una sorta di novello Candido volteriano, o di Pinocchio. Un Pinocchio che non dice bugie, ma che trova il suo Lucignolo e vi si affeziona con la stessa fedeltà e trasporto dell’eroe di legno collodiano. Così come in seguito il ritrovamento del Lucignolo di turno avviene in un contesto in qualche modo memore di un degradato Paese dei Balocchi. Buono e ingenuo, sostanzialmente incapace di concepire il Male, il Lazzaro di Alice Rohrwacher si apre a un’esponenziale scala di letture, che si stratifica tra l’allegoria contingente e la metafora universale. Se nella lettura più immediata è infatti facile individuare una gigantesca allegoria delle condizioni italiane di vita ai tempi della crisi economica, in realtà Alice Rohrwacher sembra sintetizzare in modo fortemente espressivo il destino di un’intera nazione in una grande e intelligente metafora. Tramite le vicende di questa strana comunità di contadini, Lazzaro felice ripercorre con mano lieve e significativa dinamiche politico-sociali ed evoluzioni culturali che hanno il magico dono di proporsi come “surreali”, e al contempo pressoché credibili. La distorsione operata dalla regista sul reale è appena percepibile, dovuta a un’idea di fantastico di particolare originalità e pregnanza. Seguendo la strada di un mesto e sorridente umanesimo, Alice Rohrwacher adombra i “nuovi poveri” di oggi, ma riconducendoli a un discorso più ramificato e a suo modo storicizzato, che affonda le proprie radici nell’esproprio operato nei confronti della cultura contadina da parte della forzata e selvaggia urbanizzazione. Nel segno dello sfruttamento, la comunità originaria è resa prigioniera dell’egoismo dei ricchi e in seguito dispersa in una forzata fuga in città che, in nome delle regole democratiche, riserva loro il ruolo di clochard. L’ignoranza, caldeggiata dall’alto, è la premessa imprescindibile al perpetuarsi delle stratificazioni sociali, ma è anche condizione in qualche modo invidiabile, poiché tiene al riparo dalla scoperta di tutto il Male del mondo. Con bel gusto grottesco Lazzaro felice riduce i grandi temi dei nostri giorni a sintetiche etichette di stampo fiabesco (il Grande Inganno…), mentre pure il luogo comune è intelligentemente utilizzato in tale direzione assolutizzante – la colpa è delle Banche!
Il discorso di Lazzaro felice, tuttavia, non si esaurisce in questo panorama contingente, che se si vuole può svariare dall’Italia all’Europa, fino all’Occidente intero. Come ogni fiaba che si rispetti, la portata rimane universale. E così il Lazzaro protagonista, nel suo atteggiamento da Candido, sembra dare voce a un sostanziale ottimismo di Alice Rohrwacher nei confronti dell’essere umano preculturale. Che, alla maniera di Rousseau, è congenitamente buono, spontaneamente aperto all’altro, incapace di concepire il secondo fine, il tornaconto, il calcolo di qualsiasi genere. Per Lazzaro nemmeno l’incontro col mondo può snaturare il suo carattere. Se però il suo afflato generoso è incorruttibile, esso può invece scontrarsi con una schiacciante delusione nel momento della conoscenza. Lazzaro non abbandonerà mai il Bene, ma fuori di sé può scoprire il Male. Sull’altra sponda, l’uscita nel mondo di Lazzaro funge da cartina tornasole di un ecumenico egoismo, che è trasversale e generalizzato. A turno, di lui si servono un po’ tutti, salvo poi liquidarlo alla prima constatazione della sua sopravvenuta inutilità. E la protervia dei ricchi non si spegne neanche quando ricchi non lo sono più (il vassoio di pastarelle, in questo senso, insegna). Lazzaro felice conduce tale ampio discorso, facendosi forte anche di gustose e azzeccate contaminazioni che hanno il sapore dell’inedito. Pur in un contesto fantastico, i personaggi venuti dal contado conservano fino in fondo il loro accento dialettale – del resto, pure la prosa di “Pinocchio”, che era racconto fantastico, piegava al gusto della favella toscana – mettendo in relazione produttiva idee lontane di cinema che partono dalla scelta, di per sé “antica” e resistente, di girare in un vibrante e granuloso in 16mm di satura fisicità contadina, mentre al contempo Alice Rohrwacher mostra una personalità artistica sui generis, capace di passare dai toni para-realistici dell’esordio ad aperture fortemente visionarie (basti pensare a quegli scorci dall’alto sul paesaggio naturale, o alle prime ampie inquadrature al momento della scoperta della metropoli). In ultima analisi, Lazzaro felice dà respiro al cinema italiano. Propone un’idea inedita di cinema, evidenziando una personalità autoriale specifica e non duplicabile. C’è da esserne felici, tanto. Come ogni volta che incontriamo un autore dotato di un proprio sguardo.
Massimiliano Schiavoni