Universalmente considerato capolavoro e film-simbolo della Nova Vlna, la new wave cecoslovacca che negli anni Sessanta arrivò con il fragore di un tuono e con il triste destino di doversi esaurire nel giro di pochissimi anni sotto le forbici censorie e le campagne militari giunte a stroncare quell’ondata di libertà che fu la Primavera di Praga, il terzo e penultimo film in patria di Miloš Forman Gli amori di una bionda dipinge nelle forme della tragicommedia un vero e proprio manifesto di quel ribollire sociale e di quella sete di cambiamento che animavano la miracolosa freschezza, al contempo intima e radicale nella sua agrodolce ribellione, di una forma cinematografica inedita, libera, a suo modo anarchica nel rifiuto delle imposizioni politiche e sociali. Restaurato e presentato fra i classici del 72mo Festival di Cannes, si staglia ancora una volta sulla Croisette il definitivo affresco di un’intera generazione, che si cristallizza(va) in uno sguardo al di là della Cortina di Ferro pronto a ribattere con sottile ironia e tenera insolenza alle oppressioni di quel tempo, ma anche a trasporre sullo schermo lo strazio più devastante delle disillusioni e delle difficoltà – giovanili, ma non solo – nell’accettare la realtà e la durezza anche atroce di una società intollerante e allo sbando, spartita fra bacchettoni ipocriti, ragazzine che sognano il principe azzurro e uomini ormai senza più valori né nerbo. Dosando miracolosamente e con il contagocce la presenza dei pochi attori professionisti, necessari per garantire ritmo alle scene, nella pletora di non-attori e di volti presi, come d’abitudine, dalla strada, Forman nel ’65 lasciava ancora una volta, con ampio uso dell’improvvisazione e uno stile di ripresa che non disdegna tecniche e teleobiettivi estrapolati dal documentario, che le persone mettessero in sostanza in scena se stesse e la propria percezione della quotidianità. Ed ecco che quindi, dopo la nascita della lingua filmica con Audition e la sua radicalizzazione nel tenero ritratto generazionale che emerge da L’asso di picche, la definitiva maturazione del primo Forman non poteva che ripartire dalla musica, dalla gioventù, dalla più piccola provincia ceca e dalla sua fabbrica – di scarpe, ma non è questo che conta –, come non-luogo spersonalizzante nelle sue file di macchinari e nello stuolo di operaie, tutte impegnate negli stessi gesti come formiche che quotidianamente vanno a lavorare e vivono in camerata nel dormitorio attiguo alla fabbrica, sempre assieme e (quasi) mai con un uomo, sostanzialmente condannate alla solitudine in quel rapporto di 16 donne a 1 che nella finzione cinematografica regolamenta, ovviamente da lontano, dalla direzione centrale dell’URSS, la composizione del personale dell’unico motivo per stare in quel luogo sperduto in mezzo alle montagne.
Le giovani operaie, di notte, parlano sottovoce dei loro amori, sognano a occhi aperti matrimoni e felicità eterna, fantasticano di un futuro radioso: ma Gli amori di una bionda, e non solo quelli della bionda protagonista Andula, sono amori spesso confusi con il desiderio, (auto)ingannevoli, ora illusori e ora mendaci. Sono amori figli del sogno che una notte possa non finire, a volte sanciti da un anello e a volte da un invito a Praga, la grande città, nella casa dei genitori. Dove l’anello “con un diamante vero”, però, dopo un mese di assenza e silenzio da parte del “fidanzato”, verrà pateticamente chiesto in restituzione, anche le promesse del seduttore al pianoforte si riveleranno inevitabilmente per quello che sono, frasi di circostanza con il mero scopo di affabulare, circuire e poi darsi alla macchia. Del resto i giovani, come afferma il padrone della fabbrica annusando nell’aria l’insoddisfazione e la frustrazione affettiva della sua forza lavoro, “hanno bisogno di fare quello che facevamo noi quando eravamo giovani”, e da qui la decisione di organizzare, altro tema ricorrente nel primo Forman che segue di un anno il cuore centrale de L’asso di picche e anticipa di due quelli che saranno i disastri di Al fuoco, pompieri, una festa danzante alla quale verrà invitata, nella speranza di favorire fugaci incontri e svaghi, parte dell’esercito. A presentarsi, tuttavia, non saranno i giovani e aitanti alfieri sperati, ma attempati signori di mezza età pronti a far emergere ancora una volta tutto lo squallore di una società ormai soffocata dalla vecchia generazione di inetti che continuano a detenere il potere. I soldati flirtano per tutta la sera con le ragazze e sperano, per la notte, in un selvaggio accoppiamento silvestre, ma nel frattempo finiscono inevitabilmente per inseguire con fare patetico la loro fede nuziale sfilata per l’occasione e ora persa nella selva di gambe scatenate a ritmo di rock, finiscono per mandare le bottiglie di vino al tavolo sbagliato, finiscono per spaventare anziché sedurre, finiscono per litigare fra loro e rendersi conto della loro incapacità anche nel solo pensiero di tradire una moglie che non si ama (più). Mentre, ad avvicinare Andula togliendola dalle grinfie degli attempati militari, giunge la corte asfissiante del pianista Milda: i suoi continui complimenti, l’untuoso tentativo di trovare punti in comune, le frasi (fatte e mendaci) d’amore disperato, i continui “Perché non sali nella mia stanza?” ripetuti come fossero un mantra, fino a quella chimica che scatta fra letture della mano e cicatrici simili.
E poi, sei anni dopo le suggestioni del Resnais di Hiroshima mon amour, ancora la pelle, quella della schiena di lei seduta sul letto, già nuda e timida mentre chiede di spegnere le luci, quella di lui accarezzato dopo l’amore. Fra spassose tende che non reggono e la tenerezza dei primi istanti, è il momento della passione, e poi ancor di più del ritrovarsi a parlare, i corpi ancora elettrizzati, le donne come una chitarra, la spigolosità di un’Andula che nei suoi entusiasmi giovanili e nella sua ingenuità pare disegnata da Picasso, ma soprattutto le frasi che non si pensano, dette solo per non rovinare il momento. Ma i nodi, si sa, sono sempre destinati a venire al pettine, e quando Andula deciderà, pochi giorni dopo, di andare a trovare l’amato a Praga, sarà costretta a scontrarsi con la porta in faccia della realtà del suo sostanziale disinteresse, della sua ipocrisia che poi era l’ipocrisia sociale e politica di tutta quella parte controllata e calpestata da un URSS in (troppo lenta) destalinizzazione, e soprattutto con i di lui genitori, un padre disinteressato e una madre asfissiante e oppressiva – altro tema ricorrente nel Forman degli esordi – pronta a montare un caso nazionale, preoccupata dal possibile giudizio altrui e troppo intimamente impicciona, maniaca del controllo e pervasa dall’ipocrisia latente di ogni conservatore per poter tollerare che sotto il suo tetto si possa consumare un qualcosa di lubrico, “sconcio”, “osceno”. Milda verrà costretto a dormire con i genitori, in una sequenza esilarante fra un padre frustrato che vorrebbe dormire e una madre soffocante che invece nient’altro fa che insultare e umiliare il figlio e la sua bionda conquista, ma quelle che sono le risate del pubblico, per Andula nient’altro sono che lacrime amare, china dietro la porta ad ascoltare come la sua presenza fosse estremamente sgradita, scandalosa, intollerabile. Trattata con bestialità, senza un briciolo di cuore e di umanità, prima sedotta, ingannata e abbandonata, e ora umiliata, respinta, giudicata con rancore. Ma, nel fantasticare delle giovani, nella loro tenerezza, nella loro ingenuità, nemmeno la più umiliante disillusione riesce a fare accettare la realtà per quella che è, e quando Andula farà ritorno alla fabbrica non racconterà alle compagne del suo triste viaggio a Praga, ma preferirà abbracciare teneramente la versione che ne aveva sognato, raccontando e dando corpo alla sua chimera fatta di accettazione entusiasta da parte dei “suoceri”, di affetto reciproco e di futura stabilità. Usando forse l’unica autodifesa rimasta a disposizione a metà anni Sessanta a quella generazione raccontata dal primo periodo di Miloš Forman e da tutta la Nova Vlna: l’incapacità di arrendersi. Perché Gli amori di una bionda sono semplicemente un miracolo di pura sincerità, respiro umano e sentimenti contrastanti; sono uno straordinario canto generazionale e socio-politico, al contempo ironico, tragico e caustico; sono la crepitante fotografia di un periodo e di un luogo, esposta a un linguaggio cinematografico all’apice della sua parabola e stampata sullo schermo con una vitalità che non si esaurisce di certo con i titoli di coda, e nemmeno a più di mezzo secolo di distanza.
Marco Romagna