LAS CINÉPHILAS (2017), di María Álvarez
C’è una sostanziale differenza fra spettatore e cinefilo. Lo spettatore è colui che vuole vedere un film, magari di cassetta, per il quale semplicemente compra il biglietto e va al cinema. Il cinefilo, invece, è quello che “si uccide per il cinema”, quello a cui sembra normalissimo girare il mondo alla ricerca di schermi, quello a cui sembra normalissimo entrare in una sala già alle 8 e mezzo del mattino, quello a cui sembra normalissimo vedere 5, 6 o anche 7 film al giorno, quello a cui sembra normalissimo attraversare una città nelle sue ore più infuocate per una proiezione in pellicola di un film in retrospettiva, o magari per l’esordio di un giovane autore all’interno di qualche misconosciuta nouvelle vague del Sud Est asiatico. Il cinefilo è feticista, il cinefilo è innamorato, il cinefilo è chi si emoziona come un bambino per aver riconosciuto in una qualsiasi parte del mondo un luogo che, anche per un solo momento nella sua storia, è stato un set.
Guardando Las Cinéphilas, documentario dell’argentina María Álvarez presentato alla Semaine de la Critique di Locarno, sembra quasi che lo schermo sia uno specchio, e che non siano le varie Estela, Paloma, Norma, Chelo, Leopoldina e Lucìa ad essere restituite dal proiettore: da accaniti cinefili, nei volti e nelle parole delle anziane nostre simili provenienti dall’Argentina, dalla Spagna e dall’Uruguay, non possiamo che rivedere noi stessi, il nostro entusiasmo e la nostra passione, la nostra stessa voglia di viaggiare rimanendo all’interno di una sala, la nostra stessa fame per i luoghi, i volti, la realtà e le storie di finzione che la settima arte sa regalare. Rivediamo, quando inizia il Festival del Cine di Mar de la Plata, la nostra stessa cura nel ritirare il badge di accredito come se fosse una reliquia da portare al collo, così come rivediamo le nostre stesse frenetiche letture e riletture del programma, cercando di capire cosa vedere e quando vederlo, studiando e puntualmente dimenticandosi le sinossi, sperimentando codici visivi – ognuno ha il suo – per trasformare un calendario delle proiezioni in un gioco di incastri e di visioni. Rivediamo, nel caldo sole di Madrid così come nelle sale climatizzate di Montevideo, la nostra stessa speranza che il film che stiamo per andare a vedere ci piaccia, così come riascoltiamo, seppure in una lingua diversa, i nostri abituali discorsi, fra le riflessioni magari anche argute sul senso dei film e le sonore cantonate che tutti prima o poi siamo destinati a prendere, a volte pentendocene, a volte no. “Gli psichiatri mandano i pazzi al cinema”, dice ridendo una di loro, e così noi tutti ci ritroviamo nella loro più o meno lucida follia, nella loro passione totalizzante per le immagini in movimento, nella loro completa e assoluta devozione al Dio del Cinema, onnipotente fabbricatore di sogni.
Las Cinéphilas è un film documentario corale, cucito sullo strabiliante materiale umano che la regista ha saputo trovare fra l’Europa e il Sudamerica. Partendo dalla cinefilia militante delle anziane portate sullo schermo, aspetto cardine della loro vita ma tutto sommato dettaglio marginale, il film giunge a una tenera incursione nella terza età che si fa progressivamente sempre più intima, dalle dimenticanze agli affetti, dai figli lontani ai ricordi sbiaditi, dalle buste d’auguri natalizi spedite vuote alle personalità che si delineano, dai piccoli e grandi segni di un inevitabile sfiorire alla commozione di fronte a un vecchio album di fotografie. Le protagoniste sono dislocate nelle varie zone del mondo, ma condividono le stesse immagini e lo stesso modo di lasciarle sedimentare, di lasciarle crescere, come se le vivessero insieme. C’è chi rimane incantata dalla retrospettiva asiatica, chi sa recitare interi film a memoria, chi ancora sogna di girarne e gioca con una videocamera dicendo “Mi piace catturare”, c’è chi ha amato La chambre blue di Amalric, chi cita E la nave va di Fellini, chi ancora si commuove con Via col vento e chi invece preferisce la pelle di Hiroshima Mon Amour. C’è chi si identifica in Una donna tutta sola, c’è chi ragiona sulle citazioni di Klimt in Woody Allen trovando parallelismi critici semplicemente illuminanti, c’è chi si ritrova di fronte al mappamondo e ripensa ai film giunti da ogni luogo, c’è chi riflette sulla realtà che emerge dagli schermi, c’è chi (non saremo mai d’accordo, ma è giusto dare spazio anche alle idee non condivise) si è ormai stancata di Rossellini, e c’è chi, nel centro di lettura a Buenos Aires, riesce a spiegare il concetto di tempo come entità che ognuno si crea personalmente secondo Proust meglio di un qualsiasi professore universitario, perché il cinema fa per definizione lo stesso tipo di lavoro, ferma il tempo, lo accelera, lo rallenta, ne altera le percezioni rendendolo un concetto effimero, buono solo per le lancette di un orologio.
Las Cinéphilas, ben più di chi lavora nel cinema – e troppo spesso anche di chi si definisce critico – ragionano sui film, cercano di comprenderli, cercano di estrapolare da ogni immagine l’essenza più intima, il significato più profondo. Hanno una mentalità aperta e una passione genuina, destinata ad aprire le porte della loro interiorità e a consentire a María Álvarez di costruire una sorta di continuo dialogo impossibile fra persone così lontane eppure così vicine, così discordi eppure così simili, così sognanti eppure così accorate. Che siano in fila di fronte alla sala Chaplin o alla sala Lumière, che siano in piedi o sedute, che siano dietro al pianoforte o in giro aiutate dal girello. È un film molto semplice, Las Cinéphilas, impregnato dell’umanità di chi ha deciso di farne parte, della passione, della straordinarietà di ogni visione. E non è certo un caso che sia apertamente dedicato “alla gente che ancora va al cinema”, perché è proprio la gente che ancora va al cinema ciò che il film racconta, ciò che il film mostra, ciò che il film respira, abbraccia, vive in un doppio applauso, quello che i cinefili locarnesi gli hanno tributato, quello che il film tributa ai cinefili di tutto il mondo. Alla loro, nostra, assurda normalità, e alle immagini che hanno accompagnato ogni vita.
Marco Romagna