Sta già tutto nella scelta consapevole e profondamente intelligente di una fantascienza che non immagina praticamente nulla di futuristico. I «medaglioni» non sono altro che smartphone forse addirittura meno complessi rispetto a quelli che abbiamo in tasca, i robot in competizione con gli umani hanno un’estetica vintage che intenzionalmente riporta ai prototipi dei primi anni Novanta, mentre gli avatar spixelati dei «cablatori» altrettanto apertamente sospirano alle grafiche 8bit della Nintendo degli Ottanta e ai primi SuperMario su NES. Persino la tecnologia a superconduttori dei computer quantici – o quantistici che dir si voglia – è già esistente e in sperimentazione da più di quarant’anni, con i primissimi esemplari di recente messi sul mercato anche per i privati, e non è certo un caso che il videocorso sulla tecnologia del futuro, capace di mettere tutto il mondo in una comunicazione ancor più immediata della fibra ottica fino a far diventare del tutto obsoleto Internet, sia declamato da un VHS riprodotto su tubo catodico. Non ha alcun bisogno di guardare al domani Lapsis, perché la sua distopia è già qui e ora, in ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in ogni instabilità e insicurezza dei “lavoretti” a chiamata della gig economy, in ogni disperazione, ingiustizia e ricatto, sia questo sociale o economico, che obbliga i lavoratori a sottostare a qualsiasi (in)accettabile condizione imposta dall’efferatezza del Capitale. Un film profondamente politico, in cui l’elemento fantascientifico è così volutamente antispettacolare perché semplicemente funzionale alla denuncia sociale, alla riflessione sulla necessità di ricominciare a pensare come società, all’invito a lottare collettivamente. È per questo che il regista losangelino classe ’87 Noah Hutton, alla seconda opera di finzione in un già ricco percorso cinematografico da documentarista, relega l’avveniristico agli immaginari del passato, cercando una sorta di retrofuturismo che porti all’allegoria di un presente parallelo in cui tutto è leggermente spostato, ma di fatto perfettamente aderente alla realtà e alle storture sociali e lavorative di oggi. Con le stesse/differenti malattie psicosomatiche indotte dalla stessa società che le ignora e non le cura, con lo stesso folle costo delle assicurazioni sanitarie statunitensi e di cure specifiche che magari si riveleranno truffe, con le stesse webcam che non lasciano in pace nemmeno nei boschi e nelle corsie degli ospedali, e soprattutto con lo stesso mondo del lavoro di contratti a chiamata e sfruttamenti, di geolocalizzazioni e controlli, di bisogni impellenti e droni che volteggiano sopra la testa.
Non ci sono più i pacchi da consegnare nel traffico inglese del Ken Loach di Sorry we missed you, ma con le medesime condizioni di estrema necessità e di sfruttamento, con simili conti familiari da pagare e con paragonabili computer palmari che impediscono ogni pausa, ci sono da srotolare chilometri e chilometri di cavi in giro per i boschi d’America, per mettere in comunicazione fisica, un po’ come se fossero le sinapsi che uniscono le parti di un unico e pressoché onnipotente cervello, i giganteschi cubi ferrosi delle centraline quantiche disseminate un po’ ovunque per il territorio. Un paradosso ambientalista, più volte sottolineato in montaggio dalle contrapposizioni fra flora fauna e touch screen, di cavi di plastica che verranno lasciati per sempre in mezzo alla natura, in cui deflagra come in uno specchio l’ancor più grande paradosso, socio-politico, di un lavoro occasionale apparentemente ben pagato, eppure al contempo formula di progressiva (auto)distruzione del lavoro stesso, con l’azienda che raccoglie i dati dei lavoratori e costantemente li rielabora per istruire e perfezionare i software dei robottini responsabili del medesimo incarico. Automi che, qualora dovessero completare lo stesso percorso prima dell’umano, gliene annullerebbero il compenso pattuito per la singola “missione”, e che nel loro avvicinarsi sempre più alle capacità dell’homo sapiens non tentano nemmeno di nascondere come per l’economia spietata del sistema la meccanizzazione e il definitivo avvicendamento, e quindi la rovina di lavoratori senza più un impiego e da sempre senza alcun diritto, non sia altro che una mera questione di tempo e di progressi tecnologici. Una costante ricerca di ottimizzazione da parte del sistema, che non si fa alcun problema a mettere in competizione selvaggia la bassa manovalanza per ottenere il massimo possibile delle prestazioni, e al contempo ne sfrutta le capacità per migliorare sempre più quell’intelligenza artificiale che prima o poi la cancellerà dai libri paga. Mentre la borghesia, anziché fornire appoggio alla rivolta proletaria per cambiare insieme il mondo, preferisce rimanere l’ultima fedele ruota del carro del Capitale, pronta a scacciare dal suo garage-base il lavoratore che osa caricare per qualche minuto il cellulare, ma altrettanto lesta a offrire la stessa presa elettrica per ricaricare il drone. Solo la lotta collettiva può essere la risposta, solo smettere di guardare al proprio orticello ma rendersi conto di essere tutti pedine sfruttate dallo stesso sistema malato. Del resto anche l’ingresso del protagonista Ray nel mondo dei «cablatori» è di fatto casuale e ben più che ambiguo, con il «medaglione» misteriosamente procuratogli per vie traverse che ben presto si scoprirà essere appartenuto a chi del tradimento e dell’infamia aveva fatto la programmazione – dei robot, s’intende.
Un protagonista, Ray, non certo amante della vita all’aperto e del camminare, prominente nella sua fisicità “da birra” e fortemente impigrito dalla vita, e pure inizialmente refrattario da dietro le lenti brunite dei suoi RayBan a goccia alle innovazioni della tecnologia quantica, ma sufficientemente disperato, nella necessità di far curare la misteriosa malattia che spossa e rende sempre più apatico il fratello, per accettare anche ciò che sin dall’inizio gli pare ben poco etico. Un lavoro temporaneo che quasi nessuno accetta per cupidigia, ma quasi tutti per disperazione, per ipoteche da pagare, per motivi di salute, per necessità incalzanti, in cui l’apparente meritocrazia nient’altro si rivelerà che un far west degli egoismi, da cui si potrà uscire soltanto al momento della lotta umana, unita, contro la macchina. Ma Lapsis, presentato online nell’edizione 2020 del Trieste Science+Fiction Festival, non cede mai al tono realmente cupo. Preferisce delineare il percorso della sua fantascienza distopica sul grottesco di una sostanziale commedia dell’assurdo, fatta di tende in cui accamparsi e fraintendimenti, di avvisi preregistrati e separazioni forzate, di acquisti a punti e improbabili simpatie. Con tanto di corse disperate fra furti, sabotaggi e intelligenze artificiali che sono passate in vantaggio sulla stanchezza umana, con tanto di serate passate intorno al fuoco, con tanto di mattine in cui ritrovarsi da solo e in ritardo. E con tanto di pietre lanciate su automi da seppellire prima di pagamenti che comunque non saranno erogati, perché non è così semplice raggirare il sistema. Eppure ogni sistema ha un punto debole, e scoprirne per caso la chiave porterà alla necessità di una scelta: tenersi per sé la scoperta e i soldi oppure iniziare tutti insieme una lotta di classe, remare tutti insieme dalla stessa parte per disattivare ogni robot e ottenere così i margini per ricominciare una negoziazione e riottenere quei diritti base di ogni essere umano, di ogni cittadino e di ogni lavoratore. Quello che dovrebbe essere il minimo, e che invece nella distopia che ogni giorno si cela abilmente nella quotidianità è sempre più spesso negato senza che nemmeno più nessuno si indigni. È per questo che Noah Hutton, nella sua retrofantascienza politica, non cerca il futuro nelle invenzioni tecnologiche, ma lo trova nella luce capace ancora una volta di squarciare il buio. Basta capire la necessità di combattere insieme, per ricominciare a percepire quell’astro che spande i suoi raggi fra gli alberi come il Sol dell’Avvenire. Basta continuare a crederci, nonostante tutto. Basta continuare a resistere, ogni giorno. Basta alzare il pugno verso il cielo e ricominciare la rivoluzione. Del resto anche gli oggetti della fantascienza del passato nient’altro erano che un’utopia, e invece adesso sono semplicemente l’apparato elettronico con cui leggere questa recensione…
Marco Romagna