LAMB (2021), di Valdimar Jóhannsson
Affonda le sue radici dentro inquietudini antiche e profondissime Lamb, affascinante esordio alla regia di Valdimar Jóhannsson che, dopo la prima in Un Certain Regard a Cannes e il passaggio di pochi giorni fa in Alice nella Città alla Festa del Cinema di Roma, giunge ora a illuminare dei bianchi delle sue nebbie innevate il grande schermo del Trieste Science+Fiction Festival. Un horror A24 d’atmosfera profondissimamente nordico, dilatato e silenzioso, incubale ed amarissimo, che alla paura o allo spavento preferisce di gran lunga il perturbante di un’angoscia, intriso di un melodramma familiare che si innesta nel fantastico del folklore rurale più remoto per inoltrarsi nelle zone più ambigue del rapporto fra l’uomo e la Natura, o più probabilmente di entrambe con un qualche Dio. Forse non tanto quello cristiano, pure esplicitamente rievocato dall’iconografia dell’Agnello e dalla Maria che se che se ne prende cura come una madre, ma un concetto di divinità ancor più primordiale, non necessariamente benevola e anzi in potenza minacciosa e maligna, figlia di una spiritualità profonda e ancestrale legata a doppio filo con il territorio, con il bosco, con gli animali, con l’Islanda più incontaminata. Può manifestarsi in una sensazione, in un dono, in un istante, in un paesaggio, in un incubo, in un’entità, in un’anima, in un corpo. Nel sentire prima con il sesto senso degli animali. Forse è la vendetta di un padre, forse nient’altro è che il cinismo a volte sadico del destino, forse è l’incarnarsi della ribellione di quella Natura che non accetta più soprusi da parte dell’uomo. O forse sono più semplicemente le inevitabili e più estreme conseguenze di un pessimismo cosmico, nerissimo, senza vie d’uscita, con cui Valdimar Jóhannsson apertamente guarda al suo maestro e mentore Bela Tarr, prima insegnante alla Factory di Sarajevo e ora, insieme alla protagonista Noomi Rapace, produttore esecutivo di questa sua opera prima. Una corrispondenza di sensi dichiarata sin dalla primissima inquadratura, che quasi sembra citare l’apertura de Il cavallo di Torino con la sua mandria di cavalli messa improvvisamente in fuga nella neve alzata dal vento. Ma questa volta non c’è alcun carretto da trainare. C’è solo il loro istintivo percepire una presenza, un pericolo, un cambiamento imminente, il sussurrare di un anelito invisibile. Uno spirito che aleggia nel bosco, fra un colpo di fucile e un’apparizione. Il più crudele e violento ritorno allo stato – tragico – delle cose.
Dice apertamente di non sfidare il destino e soprattutto la Natura, la parabola di Lamb. Se non altro perché l’essere umano è esattamente una parte dell’ambiente, un animale come gli altri, solo un po’ più prepotente. Fino al meticciamento, alla fusione, all’incrocio (in)distinguibile fra uomo e bestia, nell’intrecciarsi sempre più fitto delle conseguenze del negare alla Natura di fare il proprio corso. In primis per l’atto per molti versi sacrilego compiuto dalla coppia di protagonisti, che quando una delle pecore partorisce una creatura ibrida, con la testa e una zampa da agnello e il resto del corpo umano, non ha nemmeno bisogno di parlare per strapparla alla madre naturale e portarla in casa, nel fasciatoio e nella culla, a riprendersi quella pace e quella felicità familiare che nel loro convivere senza nemmeno più riuscire a sfiorarsi sembravano ormai avere perduto per sempre. Un atto contro Natura che ha però a monte una forse ancor più grave negazione della Natura, perché nulla è più contrario alla normalità di una madre che piange sulla tomba di una figlia, nulla può essere un sovvertimento più sbagliato e crudele dello scorrere naturale della vita. Tutto questo, però, Valdimar Jóhannsson preferirà renderlo evidente solo poco a poco, lentamente, inquadrando i suoi protagonisti di spalle e lavorando sul visibile e sul fuori campo per ritardare il più possibile ogni disvelamento (il corpo antropomorfo dell’agnellino, il passato recente della coppia con la perdita della Ada “originale” umana, i tentativi di allontanare la pecora-madre, il passato da rockstar del fratello, il mostro che si rivelerà solo nel finale dopo un velocissimo specchiarsi solo negli occhi dell’ibrida Ada). Lungo lo scorrere dei capitoli, prende forma un cinema in cui ciò che davvero conta non è l’effetto sorpresa nella trama, ma la sensazione di smarrimento. Fatta di (non) intuizioni ambigue, straniate, depistate, dubbiose, come un qualcosa che accade oltre i vetri della finestra e che solo il tempo e l’evolversi sapranno chiarire, come un dipinto di caotici ovini verso cui spingere il carrello, come l’inquietudine dipinta sul volto di un animale, oppure come i battiti del cuore di un uomo e di una donna che corrono disperati nella nebbia alla ricerca della “loro” creatura. Disposti perfino a uccidere – di certo una pecora, ma forse anche chiunque altro – pur di tenerla per loro, per amarla ancora e continuare a essere amati, per non perdere di nuovo, ancora una volta, la propria Ada.
Anche quando questa “nuova” Ada, la loro «felicità», «non è una bambina, è un animale», come ricorderà loro il necessario sguardo esterno e più lucido di Petur, fratello del protagonista Ingvar che non perde occasione per insidiarne (ancora?) la moglie Maria. Eppure anche lui finirà per affezionarsi a quella bambina-agnello da qualche parte fra Pinocchio e Eraserhead, per non riuscire a spararle (o forse era solo un brutto sogno di Maria?) e per farsi improvvisamente ritrovare a dormire abbracciato alla piccola, come un vero e proprio zio nella folle normalità dei genitori. Nelle affascinanti ambiguità e omissioni di Lamb, anzi, viene addirittura quasi da pensare che potesse essere figlia di Petur anche la Ada umana riconosciuta da Ingvar e ora semplice e dolorosa croce nella terra, ma anche questo rimane un dubbio, un’ambiguità, un qualcosa che è giusto che rimanga fuori dal campo e dai dialoghi, fra le mille possibili sensazioni e interpretazioni, fra le inquietudini visive e le dissonanze musicali in cui anche un pianoforte, una colazione o un aratro attaccato al trattore possono turbare fino al profondo. Quello in cui invece il suo personaggio sarà senza dubbio un nuovo punto di rottura si materializzerà quando, ubriaco, tenterà di ricattare la cognata, minacciando di rivelare alla piccola bambina-agnello come la sua stessa madre umana “adottiva” avesse ucciso a fucilate e sotterrato in giardino la pecora che l’aveva partorita e che, da madre naturale, tornava ogni giorno per reclamarla. Un segreto che non avrebbe mai dovuto sapere, un momento al quale non avrebbe mai dovuto assistere, un rischio troppo grande di essere odiati da Ada per poterlo ancora ospitare. Ma l’equilibrio è già rotto, il prezzo per le proprie colpe è già stato fissato, la tragedia ha già trovato il suo inevitabile punto di innesco. È solo una questione di tempo, poco. Forse solo un attimo, il tempo di uno sparo, o forse un’intera eternità da passare da sola, con un marito in un lago di sangue e una (mezza) bambina ormai tornata agnello, trascinata via in lacrime verso quello che la Natura, e non l’uomo, aveva stabilito. Riuscirà almeno lei a ritrovare un briciolo di felicità? O rimarrà solo quell’ultimo e disperato sguardo in macchina di una madre che ha (di nuovo) perso tutto?
Marco Romagna