Hélène Cattet e Bruno Forzani sono sposati, e da quasi 20 anni lavorano insieme nel campo del cinema, tra una serie di cortometraggi e tre lungometraggi, risultando tra i più distinguibili autori del nuovo cinema belga, nonostante la loro provenienza francese. Amer (2009) era un esordio per molti illuminante, un viaggio tripartito all’interno della sessualità di una donna attraverso tre diverse fasi ed età della sua vita, con in mezzo un retrogusto da film giallo, un’ironia velata e a tratti quasi impercettibile, e un approccio visivo che pare essere una dilatazione dei tempi e dei suoni di un qualcosa di Dario Argento – modernizzato, con eleganza. Tuttavia il loro ultimo sforzo cinematografico, Laissez bronzer les cadavres! (letteralmente «Lasciate abbronzare i cadaveri», titolo ironico-cupo come certi film poliziotteschi o spaghetti western dei nostri tempi d’oro), che fa parte del programma dei film in Piazza Grande in questa 70esima, importante edizione del Locarno Festival, ha un diverso approccio all’immagine: rimane un lavoro di ricerca di espressione, rimane un film che sperimenta con i limiti e le potenzialità del cinema di genere, rimane un film con un linguaggio personale e non proprio immediato per quanto riguarda il fluire della narrazione e rimane un lavoro che cerca ostentatamente, quando riuscendovi quando meno, un’idea di originalità o di eccentricità; ma la ricercata lentezza di Amer (e, volendo, pure quella del loro O is for Orgasm, cortometraggio tra i 26 che compongono il primo The ABCs of Death) viene tradotta in una nuova formula, in una specie di trip zarro che viaggia tra un lido e l’altro del cinema, imbattendosi in diversi ostacoli stilistici, blocchi che vanno per tentativi nel destrutturare i leitmotiv dei grandi autori – ma alla fine quello che regna forse è un senso di fallimento. Un fallimento riconducibile probabilmente anche alla ricchezza dei riferimenti, che sono immagazzinati ma non messi in discussione: ci sono i primi piani sudaticci degli western di Sergio Leone, gli zoom nelle scene d’azione come in certe sequenze di Sam Peckinpah, la claustrofobia a ritmo non cronologico di massacro che rimanda a Le Iene (1992) e The Hateful Eight (2015) di Quentin Tarantino e il ritmo veloce e schizofrenico con poche pause e troppe parentesi lisergiche di Assassini Nati (1994), che Tarantino stesso ha scritto con la regia di Oliver Stone, e di alcuni film di Robert Rodriguez, la carne martoriata ricoperta di insetti che esplicita uno sguardo triste e arrabbiato nei confronti della condizione umana, esplicitata sia dalla carne come ne La corazzata Potëmkin (1925) sia dalle formiche-pedine come in Buñuel o come nel sottobosco del prologo di Velluto Blu (1986), l’ossessione per il fuoco e per l’accensione di sigari e sigarette di Cuore Selvaggio (1990) di Lynch e in generale i suoi giochi di cambi di focalizzazione, il senso del grottesco degli ultimi film di Dumont, gli intellettualoidi criminali di Il bandito delle undici (1965) di Jean-Luc Godard, l’osmosi spirituale oro-sangue e l’idea catartica del feticismo sessuale come in La danza della realtà (2013) di Alejandro Jodorowsky, i cambi di filtri cromatici di Sans Soleil (1983) di Chris Marker, l’esoterismo senza via di fuga di Kenneth Anger e infine le umiliazioni pseudo-oniriche del corpo femminile di Bella di giorno (1967) di Buñuel. Insomma, di tutto e di più, fino alla sconfitta del significato e del significante.
È una tendenza del nuovo cinema belga, sicuramente, quella di arricchire i film con scelte grafiche interessanti sottovalutandone la coerenza e favoreggiando il puro sensazionalismo dell’immagine, e ciò è forse dimostrato, in maniera probabilmente meno visionaria ma altrettanto pregna, da autori come Jaco Van Dormael o Peter Brosens e Jessica Woodworth; ma forse è anche una crisi universale, in cui la creatività è forzata in luce di una nuova maniera di fare cinema disordinato, anti-Cosmos, complesso. Il film di Cattet e Forzani, in tale dimensione, è denso e intenso fino a stroppiare, a far esplodere il tappo della pentola, trasformando un ritmo talmente veloce ed estraniante da dover essere per forza d’intrattenimento in una straziante, snervante e frustrante esperienza psichedelica senza capo né coda, il che, come nel succitato Assassini Nati, finisce per rendere meno scorrevole il ritmo, portando a una percezione di prolissità che è estremamente problematica per un film che dura meno di 100 minuti. Questo forse anche perché la violenza stilizzata e roboante di Laissez bronzer les cadavres! non ha la raffinatezza epilettica dei capolavori della New French Extremity come Sombre (1998) di Philippe Grandrieux o Demonlover (2002) di Olivier Assayas, ne utilizza gli sguardi senza l’idea di base di un gioco di sguardi: gli occhi ci sono, continuamente filmati anche in primissimi piani incostanti, ma non c’è uno scambio, non c’è un riconoscimento. La confusa trama parte in realtà da un’idea geniale, ovvero quella di utilizzare il cinema di genere, in particolare il pulp e il western revisionista nella sua chiave contemporanea lontana dall’unità di spazio e di tempo del Far West (come per esempio in Non è un paese per vecchi (2007) dei fratelli Coen), per mettere in risalto l’assurdità dell’uomo e delle sue pulsioni, e forse in particolare l’assurdità dell’arte. Anche Cane mangia cane (2016) di Schrader in un certo senso andava in questa direzione, muovendosi nel campo semantico della parodia per poi distruggere goliardicamente il genere gangster, ma nonostante l’idea di fondo di gioco con le immagini rimaneva un film raffinato, pensato anche nei momenti di improvvisazione, profondo per trovate visive, eccessivo per portata psicologica e storica più che per gratuite trovate visive. Cattet e Forzani entrano forzatamente nelle canne delle pistole, mostrano proiettili che infilzano i quadri, in un delirio di colori che può ricordare da una parte gli amplessi nella vernice di J’ai tué ma mère (2011) di Dolan e dall’altra il bodypainting dorato di The Neon Demon (2016), film che forse è paragonabile a Laissez bronzer les cadavres! per mix di idee interessanti e giri a vuoto all’interno della misantropia; sì, misantropia, soprattutto dal momento in cui la figura interna al film in cui i registi probabilmente si rispecchiano maggiormente, ovvero la donna artista che si fa continuamente umiliare in strani rituali artistici e sessuali, è l’unica figura davvero portante del film e ogni sua frase sembra essere pregna di un nichilismo dannoso, chiuso in se stesso, vacuo. Un odio profondo verso l’uomo, percepito nel contempo come carnefice e come vittima, come mano che penetra la carne e come carne stessa, in un gioco visuale per contrapposizione che non ha decisamente il coraggio figurativo che crede di avere considerato che di grevi finezze di montaggio simili ce ne sono pure nella più recente stagione di Il trono di spade. Tutti i riferimenti cinematografici si perdono all’interno di un lavoro che sembra un’installazione illogica e sconnessa, in cui tutto vuol dire tutto e niente vuol dire niente, senza un punto di vista politico o religioso o morale ma semplicemente con una continua provocazione.
Con il digitale che tenta invano di replicare la grana della pellicola, si esplicita il ruolo che può avere questo film nel panorama cinematografico contemporaneo: è un tentativo. Di cosa, è tutto da cercare di capire, non necessariamente comprendendo in effetti ogni cosa: potrebbe essere un tentativo di fare un frullato postmoderno di citazioni, o un tentativo di esorcizzare il feticismo sessuale per l’umiliazione di se stessi attraverso l’umiliazione (e l’assassinio) dell’altro, un tentativo di denunciare il materialismo, un tentativo di distruggere i limiti del cinema exploitation à la Roger Corman o Russ Meyer attraverso una volontà plastica all’esagerazione (ma, in tal caso, molto più interessante Vigasio Sexploitation (2010-2011) di Sebastiano Montresor). Ma il frapporsi delle immagini passa troppo fluidamente dall’espressione sensoriale alla scelta casuale, ed è difficile lasciarsi convincere da un’idea di cinema così volgare, con donne nude che sparano in aria e oro fuso, crani e cavalli, manichini e proiettili, in una location surreale a metà tra un dipinto di De Chirico e un non-luogo dei film di Antonioni – più che una destrutturazione degli archetipi, sembra diventare una sfilata apocalittica di deliri. Se c’è un qualcosa che sarebbe necessario per il futuro del cinema di Cattet e Forzani, che comunque può essere maturo e a tratti interessante, è il minimalismo, la capacità di contenersi senza cercare continuamente di dimostrare la propria potenza e la propria complessità, soprattutto quando le immagini che si accatastano sono così tante da perdersi, sia rendendo la narrazione incomprensibile, il che può essere anche una scelta volontaria e intelligente, sia rendendo le idee di cui discutere troppe, inclusi i fuochi d’artificio che cercano di contrastare l’orrore, come in Cenere e diamanti (1958) di Andrzej Wajda, banalizzati e trasformati in un gioco di campo e controcampo inframmezzato da orari digitalizzati e luci, in una presa di posizione artistica che assume la forma e l’ideologia di un videoclip. E, a questo punto, è anche difficile trovare la vera e propria differenza tra il presunto coraggio visionario dei registi e lo stereotipo del blockbuster statunitense da pop corn. Più che un film schizofrenico, diventa un film bipolare, con due piedi nella stessa scarpa e nessuna possibile definizione. Forse è un naufragio della settima arte, ma perlomeno ha l’onestà di rifarsi al cinema di genere senza lo snobismo di elevarsi da esso, e alcune sequenze, prese singolarmente, riuscirebbero a non sfigurare all’interno dei film di genere versi – il problema è quando tutte le sequenze avvengono di fila, risultando pesanti e insignificanti nell’inevitabile frullato massimalista conclusivo, che risulta probabilmente più presuntuoso di quanto si prefisserebbe di essere.
Nicola Settis