L’AGNESE VA A MORIRE (1976), di Giuliano Montaldo
«Mea son vecia, e non ho più nessuno. Ma voialtri tornerete a casa, e potrete dire quello che avete visto, quello che avete fatto. Alla sera vi incontrerete e vi metterete a pensare. Ti ricordi quella volta? Ti ricordi quell’altra volta? Ti ricordi di Cino, Tom, il Giglio…? Perché vivi o morti, i compagni restan sempre compagni, anche quelli che non erano niente come me». Su questa nota struggente si avvia al finale L’Agnese va a morire (1976) di Giuliano Montaldo, tratto dall’omonimo romanzo di Renata Viganò, racconto resistenziale ispirato a vicende vissute in prima persona dall’autrice, pubblicato nel 1949 e insignito del Premio Viareggio nello stesso anno. Entrato con pieno diritto tra i classici della letteratura sulla Liberazione italiana, il romanzo portò alla ribalta il contributo della donna alla guerra partigiana attraverso la figura di un’umile e anziana lavandaia, l’Agnese del titolo, che nelle Valli di Comacchio, tra l’8 settembre 1943 e il duro inverno del 1944, si dà anima e corpo all’attività di staffetta per un gruppo di partigiani locali. La sua è un’adesione spontanea e istintiva, scaturita dalla fedeltà alla figura del marito Palita, partigiano deportato dai nazisti, ma soprattutto da un’intima aderenza al bene. Tema facile, parola banale, forse. Eppure nella burbera Agnese dell’inizio, nel suo opporsi alla famiglia di vicine di casa ben accoglienti nei confronti dei nazisti, risuona innanzitutto un riconoscimento istintivo, preculturale. Il bene sta lì, c’è poco altro da aggiungere. Come possono il nazismo, il fascismo e la guerra essere il bene? Non c’è alcun dubbio. Chi perseguita e uccide è il male, chi difende la propria libertà è il bene. Dal basso della sua posizione sociale, Agnese rivendica l’ingenua e univoca verità di chi non può nemmeno concepire un rovesciamento così grottesco di valori. Non importa aver studiato, neanche essere mai uscita da un ristrettissimo spazio geografico, per capire dove sta il bene. Per approfondire tematiche e ragioni storiche c’è tempo. Nell’attimo del presente, prima che arrivi il futuro a far riflettere su quanto accaduto, il bene è lì, semplicemente da appoggiare. Agnese non si fa domande, e ai complessi quesiti dei suoi compagni di lotta risponde con estrema semplicità. Buonsenso paesano, o puro e semplice spirito d’azione.
Mai platealmente epico, L’Agnese va a morire racconta una guerra partigiana scandita nel quotidiano, fatto di paura, coraggio e strategia, di senso d’appartenenza e fratellanza. Giuliano Montaldo si pone al racconto con un puro approccio di testimonianza storica. Niente fronzoli, nessuna facile epicità. Della guerra partigiana non nasconde la durezza, anche all’interno del gruppo di combattenti narrati. La paura fa vacillare l’equilibrio psichico, qualcuno arriva al suicidio. E il comandante incarnato da Stefano Satta Flores non si esime dal risultare più volte sgradevole, per fredda determinazione e calcolo strategico. E’ una guerra, non c’è tempo per perdersi dietro alle fragilità dei singoli: eppure Montaldo, come già in altre occasioni (basti pensare all’etica problematica degli Alleati narrata in Gott mit uns, 1970), pone l’attenzione del racconto ai “marginali della Storia”, magari deboli, incapaci di reggere fino in fondo allo spettacolo della violenza. O ai “marginali senza storia”, ruolo al quale si autorelega sul finale la stessa Agnese. Senza figli, senza più marito, sola al mondo, Agnese, ormai anziana, partecipa alla lotta non per sopravvivere, e senza alcuna intenzione di lasciare una traccia indelebile. «I compagni restan sempre compagni, anche quelli che non erano niente come me»: dalla sua casa sperduta nella campagna Agnese inforca la bicicletta per andare alla guerra, e per tornare nel nulla senza identità da dove è partita. Finirà crivellata da un tedesco sulla strada, quasi per caso. Il finale, che pure sembra arrivare affrettato, sancisce invece nel suo fulmineo avverarsi la conclusione di una parabola segnata dall’anonimato. Agnese non riempirà i libri di storia, quelli sono riservati alle figure di spicco, ai condottieri, o ai martiri che in circostanze eccezionali sono riusciti a guadagnare la memoria del loro nome e della loro vicenda. Agnese, come tanti in quei giorni, muore “senza nome”. Per questo la sua malinconica tirata finale suona come un memento mei, una sorta di novella Pia de’ Tolomei: ricordatevi di me nei vostri racconti, tramandatemi nelle leggende orali. Voi avrete la condivisione della memoria, io no. La Resistenza, secondo la scelta del film di Montaldo, è un grande racconto popolare, per questo votato a un pieno e conclamato intento didattico.
Sobrio, secco e anche brutale nel suo svolgersi, L’Agnese va a morire è mosso sopra ogni cosa dalla volontà di contribuire alla memoria di un Paese e alle radici sulle quali è nato. Non ragiona sul fascismo né sulla lotta partigiana, non tenta riflessioni su cause e finalità storiche. Semplicemente racconta la lotta nel suo farsi, l’azione e la sua progettazione; un racconto del fare, un fare continuo, fughe, nascondigli, tradimenti, capanne, agguati, inondazioni, cibo da preparare, materiali scottanti da trasportare… E pur in un’ampia cornice il racconto si conserva per lo più intimo e individuale: valga per tutte, la bella sequenza in mezzo alla neve, dove la voce off di Agnese dà conto della scoperta della felicità. Affaticata in bicicletta tra i cumuli di neve, Agnese si dice contenta. E’ inevitabile che in tale nota di gioia si ravvisi anche una presa di coscienza femminile, la gioia per aver scoperto da donna un ruolo attivo nei lontani orizzonti della Storia. Storia che passa sopra di lei, lontana, impossibile da comprendere totalmente nelle sue macroscopiche dinamiche. Agnese sa solo che il bene sta lì, e di più non domanda. Non a caso la rabbia di Agnese esplode quando la violenza giunge a spazzare via i suoi unici affetti (dopo il marito, i nazisti le uccideranno crudelmente anche la gatta). Se lo stesso romanzo di Renata Viganò nasceva anche con l’intento di riconoscere alla donna un ruolo nella Resistenza, d’altra parte Giuliano Montaldo va ad allinearsi a una generale rivendicazione femminile che percorre gli anni in cui il film vede la luce.
Appena enfatizzato da un commento musicale di Ennio Morricone assai più trattenuto che altrove, piegato qua e là nei toni da uno struggente afflato crepuscolare, il film si fa forte di un efficace apparato figurativo, sostenuto da un emozionante lavoro sulle luci nella campagna padana e in mezzo alle paludi (la fotografia è di Giulio Albonico). C’è anche qualche caduta di tono (la sequenza onirica di Agnese, dove la donna rivive il senso di colpa per lo sterminio delle vicine di casa; qualche goffaggine nelle sequenze più pirotecniche; qualche sbavatura in sede di sceneggiatura), ma resta predominante la volontà di narrare la Resistenza come un grande momento di aggregazione intorno a un ideale comune. Più di tutto L’Agnese va a morire sembra voler rivendicare una primaria matrice popolare nella Resistenza, che ha dato fiato e sangue alla lotta senza perdersi dietro ai complicati ragionamenti degli istruiti. Rimane una sola parentesi dedicata ai borghesi, la bella pagina a casa di Walter (un cameo commovente di Johnny Dorelli), che snocciola una tesi assai poco banale sull’istinto alla delazione – «Sono tempi brutti, oggi c’è gente che fa la spia senza una ragione, così per paura, o per rabbia. Sono i primi a scappare se sentono una cannonata, o se passa un aereo, ma basta che vedono un partigiano e allora sono capaci di passare sotto una pioggia di proiettili per andarli a denunziare. Non che amino i tedeschi, ma non sopportano quelli come voi, perché vi prendete il fastidio di pensare e agire anche per chi non muove un dito, e la loro cattiva coscienza ne rimane mortificata, sconvolta. Una spiata e si mettono il cuore in pace. E’ paura. Rabbia e paura». Il punto di vista marginale, socialmente “ribassato”, motiva una struttura anche saldamente romanzesca, che tiene ben presenti ritmi e modalità del cinema di genere di casa nostra. La voglia di fare spettacolo e memoria. Soprattutto memoria, che oggi quanto mai appare necessaria, da Todi in tutta Italia. Con l’apparenza di un classico racconto di presa di coscienza, in realtà L’Agnese va a morire narra un puro e semplice ritorno a se stessi. Scoprirsi felici nell’agire secondo ciò che siamo. La coscienza è secondaria, viene dopo. Prima, basta sapere istintivamente dove sta il bene, e agire di conseguenza. Sempre viva il 25 aprile!
Massimiliano Schiavoni