C’è un rimpianto che riguarda tutti. La morte di Massimo Troisi fu un dolore praticamente nazionale. Era un personaggio molto amato, per quel suo profilo al contempo ingenuo e furbo, popolare e moderno. La fame e la fragilità psicologica. La pancia e la psicanalisi. Nel documentario Laggiù qualcuno mi ama che Mario Martone gli ha dedicato, presentandolo in Berlinale Special giusto un paio di giorni prima dell’uscita in sala in Italia nel giorno che sarebbe stato del suo settantesimo compleanno, c’è un dato che salta agli occhi: i dieci anni necessari a Troisi per prendersi il diploma di maturità. Seguendo un errato luogo comune che vuole le migliori menti in qualche modo obbligate a eccellere anche nello studio, viene da sobbalzare davanti alle pagelle di Troisi se si pensa alla capacità di introspezione nel maschio italiano, colto nel passaggio epocale tra anni Settanta e Ottanta, che il suo cinema ha saputo esprimere. Già alle prime battute Martone imbastisce un parallelismo ardito, pressoché arbitrario ma interessante, fra Troisi e il ciclo di Antoine Doinel di François Truffaut. Se nella sostanza stilistica delle due rispettive cinematografie si aprono ovviamente enormi distanze, di sicuro è comune ai due autori l’insofferenza per l’autorità, il libero recalcitrare di fronte alle istanze del quieto vivere sociale, borghese o meno. Fuggire, ma non in funzione di una fiera opposizione alle griglie istituzionali, bensì per vivere fino in fondo tutte le proprie fragilità. Con buona intuizione Martone individua nell’inadeguatezza alla vita il tratto comune fra Antoine Doinel e il personaggio cinematografico di Troisi – che è sempre un po’ lo stesso; succede a tutta una generazione di autori italiani, si pensi al primo Nanni Moretti, a Francesco Nuti, a Carlo Verdone, a Roberto Benigni… Nel contesto italiano ciò assume anche tratti più specificamente sociologici. Il personaggio di Troisi è una sorta di nuovo maschio (non-maschio) italiano, figlio di una nuova generazione discretamente distante dal gallismo e maschilismo dei padri. Al maschio gagliardo post-anni Sessanta Troisi risponde con un balbettio indistinto, con le mani che vanno continuamente a stropicciarsi gli occhi, con dubbi e ripensamenti. È ancora vittima dei modelli maschili pregressi, li subisce e li soffre. Vorrebbe essere come loro, ma non ha il coraggio di essere altrettanto francamente geloso e possessivo come un tempo si usava. Si battezza il futuro figlio con il nome del nonno, come in Italia capita un po’ tuttora, ma non si ha il coraggio di ammetterlo, e per arrivarci si deve fare un largo giro verbale. Retaggio e modernità. Di Napoli, di un’Italia piazzata al crocevia fra ataviche tradizioni e nuovi costumi.
Laggiù qualcuno mi ama sembra in qualche modo il racconto di un Troisi individuale e universale. Classe 1959, anch’egli napoletano, Mario Martone aveva circa vent’anni quando Massimo Troisi iniziò a muovere i primi passi sulla scena artistica di Napoli. Troisi aveva appena sei anni più di lui, e di sicuro Martone ha a sua volta vissuto l’esperienza creativa di Troisi come la diretta conseguenza di uno scenario sociale ben noto a lui per primo. Fra le varie interviste che si alternano nel film, Francesco Piccolo sottolinea che l’avvento di Troisi dette sostanzialmente voce a un’intera, nuova generazione. Non più la Napoli adulta di cui parla Goffredo Fofi, bensì una Napoli giovane e desiderosa di cambiare, insofferente verso gli antichi modelli sociali familisti, conservatori, filo-cattolici, miracolistici e superstiziosi. È uno scenario entusiasmante, di cui in pochi anni emergono come interpreti più efficaci, in due distinti campi artistici ma spesso in collaborazione, Massimo Troisi e Pino Daniele. Pure il teatro si muove verso radicali rinnovamenti, e qui troverà posto la ricerca di registi, drammaturghi e attori come Mario Martone, Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Toni Servillo, Roberto De Francesco, e chi più ne ha più ne metta. Diverso sarà il percorso della Smorfia, uno degli esempi più interessanti di connubio e contaminazione fra tradizione e modernità napoletana. In tal senso Laggiù qualcuno mi ama sembra una doppia rammemorazione in cui Martone, tramite Troisi, ricorda anche un po’ stesso, la propria Napoli, le proprie origini artistiche. Nel teatrino off dove esordisce il trio della Smorfia sembra di percepire un’intensa e partecipata emozione personale. In ogni caso, l’opera di ricostruzione della carriera di Troisi è precisa, puntuale e fortemente strutturata. Se ne ripercorrono le fasi più salienti, prendendo le mosse dagli esordi fra teatro e televisione per giungere ai grandi successi ottenuti al cinema. In qualche modo il film conserva anche un impianto sanamente divulgativo, magari proiettato a far scoprire Troisi alle nuove generazioni che potrebbero anche ignorarlo totalmente – dalla sua morte sono passati quasi trent’anni, dal suo primo film addirittura più di quaranta. Per chi invece appartiene alla generazione di chi scrive, Troisi è una figura popolarissima, amatissima, la cui scomparsa fu letteralmente sconvolgente. Per cui a noi nati intorno agli anni Ottanta il film di Martone può sembrare a tratti scontato, fitto di materiale di repertorio conosciutissimo. In una sala di spettatori coetanei le risate di tutti erano venate di quella particolare risonanza, fra il nostalgico e il compiaciuto, di chi riscopre per la millesima volta la battuta arcinota o il brano del film che si conosce a memoria. Si deve altresì aggiungere che al materiale noto e a qualche intervista non particolarmente significativa si affiancano però notevoli ed emozionanti ritrovamenti archivistici, che ci riportano a Massimo Troisi come oggetto di carne e voce. L’intervista più ampia e profonda è infatti riservata ad Anna Pavignano, compagna e sceneggiatrice di Troisi per tutta la sua filmografia, che oltre alle proprie preziose memorie apre a Martone almeno tre ammirevoli scrigni documentali: le vecchie agende di scuola, vergate con la grafia di Troisi, un mazzetto di appunti sparsi sempre manoscritti, e soprattutto una sorta di seduta di autoanalisi, registrata su una vecchia musicassetta, che Troisi rilasciò per gioco alla Pavignano e a un’altra amica. È assai acuta in tal senso la ricerca che Martone conduce intorno al Troisi interessato alla psicanalisi. È un tratto assolutamente non trascurabile della sua filmografia. Pur ammettendo in un’intervista di repertorio recuperata da Martone di esserne totalmente digiuno, Troisi mostrava in realtà, sempre in un territorio mediano fra intuizione ingenua e capacità di introspezione, una spiccata tendenza ad andare a fondo non soltanto in se stesso, non soltanto nel rapporto con l’universo femminile, ma anche con gli assoluti culturali di un intero Paese. Nato, scritto e realizzato durante la relazione sentimentale con Anna Pavignano, Ricomincio da tre (1981) non ha dirette discendenze autobiografiche ma appare comunque come il frutto di una doppia vena creativa. Lo si percepisce con grande evidenza come il prodotto di lunghi confronti fra l’universo maschile e femminile all’interno di una coppia colti esattamente alla fine degli anni Settanta. In qualche modo Scusate il ritardo (1983) ne costituisce un secondo capitolo, ma il nucleo più pulsante della fragile inadeguatezza troisiana alla modernità è del tutto ravvisabile nella sua splendida opera prima. La confessione registrata su cassetta contribuisce fortemente al disvelamento di questo Troisi. Sono parole scandite con molta lentezza, meditate, evidentemente pronunciate in una fase di perfetto relax psicofisico – la Pavignano ricorda che Troisi si dispose proprio come durante una seduta psicanalitica, disteso su un divano.
Laggiù qualcuno mi ama registra anche il rimpianto del Troisi autore di non aver mai aderito più a fondo nel suo cinema a un maggiore impegno sociale. Politicamente impegnato fin da ragazzo, Troisi ha accumulato anche una lunga storia di rocciosa coerenza autoriale nel rapporto con le istituzioni – chiamato a occuparsi degli spazi comici di Sanremo 1981, si ritirò all’ultimo momento perché la Rai gli impose di presentare preventivamente i testi dei suoi interventi e di non parlare di tutta una serie di temi scottanti come terrorismo, terremoto in Irpinia, scioperi e quant’altro. Per il famoso e splendido sketch della Smorfia sull’Annunciazione si aprì addirittura un procedimento penale per vilipendio alla religione di Stato. Erano anni folli, lo sappiamo. Basti ricordare en passant che accadde lo stesso per una satira innocua come Il pap’occhio (Renzo Arbore, 1980). Martone recupera un’intervista di Troisi in cui auspica di coinvolgere più strettamente l’impegno sociale nei suoi film. È quel che accadrà, di fatto, in Il postino (Michael Radford, 1994). Tuttavia, come spesso capita il cinema parla malgrado se stesso. Nei pochi interni di Scusate il ritardo, ad esempio, nel suo orizzonte ristretto, parla un intero universo che, fragile e scostante, fugge dalle complessità della vita per radicale senso di disadattamento. Pensiero debole e fragilità individuale. Ripiegarsi in se stessi perché gli altri cosa cercano, che vogliono, che pretendono da me. A ben vedere, è un sentimento diffusamente anni Ottanta in Italia. Riguarda un po’ tutti i malincomici, e fuori da questa definizione riguarda anche Michele Apicella, il primo alter ego di Nanni Moretti. In fin dei conti, riguarda il cinema di Moretti un po’ a qualsiasi altezza temporale. Si è felici che il centrosinistra abbia vinto le elezioni, ma il grido in piazza è comunque riservato al peso del figlio neonato, e il sogno inarrivabile resta di rifugiarsi sul set per girare il musical sul pasticcere trotzkista (Aprile, 1998). Cerca di fuggire pure dalla responsabilità del dolore, dal dolore più atroce, un padre che ha visto morire uno dei suoi figli (La stanza del figlio, 2001). Dalle schiaccianti responsabilità di un Sommo Incarico fugge addirittura il Papa (Habemus Papam, 2011). I personaggi di Troisi a loro volta fuggivano, o cercavano di ottenere ciò che volevano ma girando intorno alle cose, agli argomenti, per non esporsi troppo. Si rischia di passarci per antiquati, per retrogradi. Il risultato di un castello di certezze socio-psicologiche che va in pezzi è una lunga Terra di Mezzo dove non resta che parlarci per balbettii, insicurezze, fragilità, mezze frasi, in cerca di qualche porto sicuro irrimediabilmente perduto. Massimo Troisi era questo, e per questo era anche autore impegnato. Grazie a Mario Martone per avercelo ricordato, e per averlo segnalato a chi ancora non lo conosce, se avrà voglia di conoscerlo.
Massimiliano Schiavoni