2 Ottobre 2020 -

LACCI (2020)
di Daniele Luchetti

Come accadeva al buono o ottimo Daniele Luchetti di Mio fratello è figlio unico (2007), La nostra vita (2010) e molto parzialmente di Anni felici (2013), tanto per citare alcune delle sue opere più recenti, Lacci è un film stilisticamente interessante, che cerca una propria strada a un rinnovato realismo, perseguito tramite un intenso lavoro con gli attori: immagine soggetta a tremolii, sonoro in presa diretta, pedinamento degli attori che si rinchiudono sempre più, di film in film, nel dialogo fintamente informale, sussurrato, pronti a esplodere in centellinate e studiatissime scene gridate, a fronte di un testo dialogico fortemente scritto e preordinato. In Lacci questo elemento è ulteriormente enfatizzato dall’evidente fonte letteraria (l’omonimo romanzo di Domenico Starnone), che giunge a irrigidire di frequente gli scambi tra i personaggi, tradendo in un dialogo generalmente e volutamente informale e distratto la risorsa alla fonte con improvvisi squarci di termini inconsueti e composizioni sintattiche da evidente pagina scritta. Ci potremmo anche stare, dal momento che la sociosfera narrata è (di nuovo, per sempre: una nuova retorica tutta nazionale) una borghesia intellettuale mediamente ben istruita, pronta a piegarsi all’ennesima riproposizione di un’originaria crisi coniugale/familiare foriera di sconquassi di generazione in generazione. L’ambizione è anche, però, dichiaratamente più alta. Il racconto si articola infatti su tre movimenti radicati in varie dimensioni temporali frammentate e intersecate con ricorso al flashback (la misteriosa scatola a scacchi, McGuffin del racconto, sembra richiamare anche la medesima struttura narrativa del film), tanto da esordire nella Napoli anni Ottanta per giungere ai giorni nostri. I lacci del titolo sono ovviamente, prima di tutto, quelli familiari e coniugali, in mezzo ai quali i vari protagonisti si dimenano cercando di liberarsene e, molto volenterosamente, magari se ne vorrebbe pure restituire una disamina dispiegata nell’evolversi del quadro antropologico lungo il quarantennio narrato. Se il racconto infatti si chiude pressoché interamente tra le pareti familiari, tagliando fuori di fatto tutto ciò che attiene alla società circostante, d’altro canto Lacci vorrebbe probabilmente parlare tramite il privato dei propri protagonisti anche di archetipi socio-antropologici che vanno incontro a una graduale demolizione, anzi a una letterale autodistruzione restituendo personaggi, in età matura, consapevoli di essersi autocondannati all’infelicità. È probabilmente in tale direzione che va interpretata la Vanda giovane di Alba Rohrwacher, discretamente a disagio nei panni di una casalinga demolita nel suo modello di vita dall’abbandono del marito, con tanto di deragliamenti psicotici. Modelli superati dal tempo, che solo molti anni dopo, reincarnandosi in una Laura Morante resa somigliante alla Rohrwacher giusto dalla capigliatura, possono prendere coscienza della propria sconfitta.

Lacci, presentato in apertura di Venezia77 e quasi subito distribuito nelle sale, si sorregge a una messinscena anche apprezzabile, che stilisticamente segue le orme luchettiane già note. Eppure, tale stile apparentemente dimesso (e nei fatti, al contrario, laboriosissimo e compiaciuto) va ad applicarsi a una materia quasi inerte, resa impalpabile da un ridursi del discorso a poco più di un balbettio. La struttura narrativa a mosaico appare volutamente sbilenca e irregolare, ma al contempo soffre anche di un discreto squilibrio tra le sue varie parti. La sezione anni Ottanta è a sua volta svelata un po’ per volta seguendo incastri temporali non lineari, e narrativamente si delinea per la parte più corposa, ma al contempo assume anche i tratti di una lunga sezione d’introduzione al racconto che non trova adeguato sviluppo negli Aldo e Vanda maturi e arresi a se stessi. È invece una gran bella accensione l’apparizione finale del duo Adriano Giannini-Giovanna Mezzogiorno nei panni dei figli ormai cresciuti, ma anche in questo caso prevale una schiacciante timidezza narrativa che riduce il loro intervento a una chiusa rapida e poco incisiva, ancorché caratterizzata da una delle sequenze migliori del film – i lacci, alla fine, li spezzano i figli, o almeno ci provano, ma non è detto che sia un bene, perché con l’opera di demolizione di Anna e Sandro probabilmente se ne va il meno buono, ma anche il buono, gettando via l’acqua sporca con il bambino. In una tale macrostruttura frammentata e volutamente interrogativa, finisce dunque per disintegrarsi in buona parte anche l’intero equilibrio del racconto. La sezione anni Ottanta appare una sorta di lunghissima introduzione, un’esorbitante sequenza d’apertura che tuttavia non trova un vero compimento nel prosieguo, e dopo circa cento minuti il film finisce quando si è ancora in attesa che prima o poi il racconto entri nel vivo.

In tal senso, Lacci sembra riconfermare per l’ennesima volta pregi e difetti di un cinema medio italiano che pure è puntualmente ambizioso (e qui, come spesso in Luchetti, il tiro è ulteriormente alzato), ma che al tempo stesso risulta anche immortalmente preoccupato di non essere mai troppo problematico, troppo poco chiaro, troppo esteticamente audace. Così, tutta l’interrogatività della sezione Lo Cascio-Rohrwacher è prima esplicitata in modo più comprensibile nel rapporto Morante-Orlando, per poi trovare una sorta di spiegone nelle interpretazioni finali di Giovanna Mezzogiorno. Il consueto didascalismo all’italiana finisce per prevalere, mentre la cornice storica perde molta della sua pregnanza e, soprattutto, ci si tiene a debita distanza da qualsiasi vera cattiveria – benché i dialoghi tracimino di un ostentato cinismo tutto di facciata. Perché non basta narrare personaggi esacerbati nei loro conflitti, o spinti sul limite della follia (Vanda e il tentativo di suicidio), se poi essi sono inseriti in una cornice espressiva fortemente rassicurante. È il consueto paradosso di molto cinema italiano, dove anche la materia più viva e pulsante è spesso attenuata dalla solita idea conciliante di cinema, cosicché anche la desiderata provocazione si spegne nella prevedibilità e omogeneità estetica. E Luchetti, in tal senso, sembra anche perdere l’approccio genuino e arrembante che aveva mostrato in particolare in Mio fratello è figlio unico e La nostra vita. Pur costeggiando una massa narrativa caratterizzata da vero dolore, disagio e frustrazione, Lacci sembra infatti sfiorare appena ciò che evoca, senza entrare mai nella carne viva di una catastrofe che dal privato vorrebbe espandersi verso una riflessione su schemi culturali nazionali o magari pure universali. Peccato, perché Luchetti azzecca almeno un tono da ghigno sottile (ben sottolineato dal ricorso al “Letkiss” delle gemelle Kessler) sulle miserie di questi esserini minuscoli messi al centro del suo racconto, colti mentre si dibattono angosciosamente e pateticamente nell’interpretare i ruoli che una società (quella società e quella cultura) si aspetta da loro. Nella sua cinica e freddissima indifferenza, probabilmente è l’Aldo di Lo Cascio-Orlando ad aver compreso meglio il proprio ruolo. Per stare insieme una vita, bisogna parlare poco. È saggezza, ma è anche un fallimento. Ché senza confronto, non esiste coppia né felicità. Una felicità eternamente infelice, che nel suo artificioso plusvalore, attribuitogli dalle aspettative di un’intera società, non fa altro che generare disastri pure sui destinatari di tale supposta felicità – i figli. Materia corposissima, intelligente, che purtroppo avrebbe avuto bisogno di una messinscena semplicemente più coraggiosa.

Massimiliano Schiavoni

“The Ties” (2020)
100 min | Drama | Italy
Regista Daniele Luchetti
Sceneggiatori Domenico Starnone (novel), Daniele Luchetti (screenplay), Domenico Starnone (screenplay), Francesco Piccolo (screenplay)
Attori principali Alba Rohrwacher, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno, Laura Morante
IMDb Rating N/A

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