LA VOCE SOLITARIA DELL’UOMO (1978-1987), di Aleksandr Sokurov
La sezione eponima di Locarno 70 potrà pure avere il considerevole difetto di non avere uno sguardo preciso, e dunque di comprendere in sé film tra i più vari senza una coerenza o un reale filo conduttore preferendo raggruppare, non senza un gusto dell’autocelebrazione che non è certo la prima cosa che viene in mente pensando a un Festival sempre a misura d’uomo come questo, le opere prime di grandi registi passati nel corso degli anni dalla kermesse ticinese. Tuttavia, nello spirito cinefilo al quale il Festival di Locarno è sempre e molto più di altri votato, la possibilità di (ri)vedere in sala e su grande schermo film come El Pisito (1958) di Ferreri e Il segno del leone (1959) di Rohmer non è certo esperienza spiacevole, e fra questi esordi illuminanti e indimenticabili al primo film di Aleksandr Sokurov, La voce solitaria dell’uomo, non può che spettare di diritto uno dei posti d’onore. Un po’ perché Sokurov, nonostante la sua carriera sia iniziata negli anni ’70 e sia sempre stata quella di uno dei registi più indispensabili della contemporaneità, è tendenzialmente ricordato soprattutto per le opere compiute dal 1997 (l’anno di Madre e figlio) in poi, e un po’ perché il nuovissimo restauro in DCP del film, mai visto prima di questo Festival su uno schermo cinematografico, è in effetti di un livello alto come pochi restauri digitali visti sinora – ce ne viene in mente giusto un altro, ovvero quello di Solaris (1972) di Andrej Tarkovskij visto al più recente Trieste Science+Fiction. Un restauro il più possibile filologico, privo di quegli intenti migliorativi che da diversi anni rovinano i vecchi film, un restauro che perderà di sicuro qualcosa rispetto alla luminosità e alla profondità della pellicola, ma che sfrutta al massimo delle sue possibilità il mezzo digitale del quale si avvale.
La proiezione al GranRex con breve ma intenso incontro col regista, dunque, è stata probabilmente importante sia per gli spettatori alla prima visione sia per coloro che il film già lo conoscevano, come il sottoscritto, perché La voce solitaria dell’uomo è sempre un film da (ri)scoprire, che mischia l’automatismo psichico di André Breton con la fotografia bucolica di film come Cronaca Morava (1969) di Vojtech Jasny, il senso poetico e spirituale di Yuri Arabov e Andrei Platonov, ai quali il film, con le doverose libertà, è direttamente ispirato, con le musiche di Krzysztof Penderecki.
È un film esistenziale sin dal titolo, La voce solitaria dell’uomo, che evidenzia da subito una prassi definitiva all’interno di una narrazione che non pare avere nulla di definitivo, tra scissioni stilistiche e cambi grafici che sorprendono in continuazione, al punto da riuscire a creare caos e spavento con un semplice schizzo d’acqua al rallentatore, semplicemente facendolo arrivare con violenza insieme a una nota di musica. Del resto, La voce solitaria dell’uomo più che parlare di solitudine sembra parlare di amore, o meglio di una contrapposizione, messa in scena attraverso immagini evocative e non attraverso una linearità tradizionale, tra assenza di amore ed eccesso di amore. Sono messi costantemente in primo piano i due protagonisti, l’ex-soldato Nikita e la sua amata Luba, a volte per esaltare la loro bellezza non convenzionale, e a volte per rendere grottesca qualsiasi piega nelle loro espressioni, in un rapporto idilliaco in cui il contatto umano si consuma più con gli occhi che con il corpo, o, ancora, più con il mezzo cinematografico, che riesce a esprimere il loro amore senza mai dedicarsi alla loro intimità, che con il sesso. Sokurov dimostra sin dall’incipit del film un’enorme maturità nel mettere in discussione i vari termini della propria maniera di fare cinema, non risultando mai pretenzioso, giocando con la transizione perpetua tra un’inquadratura e l’altra come osservando in contemporanea centinaia di dettagli sconnessi, e cercando di metterli insieme solo ed esclusivamente attraverso la percezione dello spettatore, in modo che riesca a trovare una comprensione che superi il semplice raziocinio raggiungendo il sentimento.
La voce solitaria dell’uomo nasce come il film di laurea del regista al VGIK, l’Università statale pan-russa di cinematografia S.A. Gerasimov con base a Mosca, e fu profondamente censurato quando fu pubblicato nel 1978, al punto che il regista e il direttore della fotografia si trovarono a nasconderne una copia in pellicola sotto il letto del loro dormitorio. La carriera di Sokurov, apparentemente destinata a finire, si riprese in realtà relativamente presto con nuovi progetti dal 1980 in poi, anche grazie al supporto morale di Tarkovskij che difese il film chiamando Sokurov “genio” e divenne suo amico, oltre che sua profonda influenza per un’intera carriera. Il film, dedicato al regista di Nostalghia (1983), ha avuto poi la sua prima proiezione dopo la Perestrojka e il Glasnost, dopo la morte di Tarkovskij, nel 1987.
Il film è importante anche come re-visione di Tarkovskij stesso, per la precisione del suo film Lo specchio (1975), forse la principale influenza sull’opera omnia di Sokurov. Se Lo specchio, infatti, è sotto certi punti di vista una ri-scrittura del cinema tutto nel senso di organizzazione diversa della narrativa – passando dal ritmo del racconto al collasso delle certezze attraverso uno stile che prende come principale ispirazione la poesia –, La voce solitaria dell’uomo ne è un inconsapevole superamento, che invece di utilizzare la poesia come struttura la usa come connessione, come pretesto per trovare un collegamento, un riconoscimento, un flusso condizionale atto anche a una rilettura spaziale del montaggio. Il campo-controcampo non è più scandito necessariamente da stacchi netti, ma da dissolvenze, con un volto che si specchia nell’altro e si riferisce all’altro, con un’atmosfera sospesa tra l’onirico e la visione religiosa. La sessualità sembra essere esclusa, o meglio sostituita da un senso del non-visto e dell’astratto che vuole provare a definire un’altra faccia della realtà e del cinema, pronta a deflagrare costruendo non-luoghi in costante collasso e destrutturazioni impoverite dell’ideale di cinema russo e russofilo. Non si tratta di un cinema idealistico o ideologico, quanto della ricerca di uno spazio, di un’irrealtà martellante e velenosa in cui esperire la fine della vita è un momento uguale allo specchiarsi negli occhi di un altro, di chi si ama e non si rivede più, nella memoria di un mondo che non c’è, in un L’Atalante (1934) di Vigo mortifero e disperato. In mezzo all’estasi e all’assoluto, si creano finestre per l’incomprensione poetica dell’altrove che si rallentano e si velocizzano, si scompongono e si ricostruiscono, diventano mostruose e poi costanti promemoria di una fine religiosa e divina per l’immagine: come immaginando l’infinito attraverso l’umiltà di una sessione di lavoro, tra primi piani surreali e carnali.
Sokurov, sì, probabilmente è maturato col tempo. Madre e figlio è un film drammaturgicamente più compiuto, Toro (2001) e Il Sole (2005) sono stilisticamente più compatti, Arca Russa (2002) è più geniale e rivoluzionario, Faust (2011) è un capolavoro più importante e Francofonia (2015) ha un’idea d’arte più straziante e storicamente commovente. Ma la sua carriera pre-’97, pur forse derivativa e meno personalistica, non è decisamente da sottovalutare proprio a causa di una serie di grandezze cinematografiche che includono: implosioni visionarie, una fotografia drastica, una capacità di rendere la grandezza dell’assoluto attraverso un immaginario relativamente modesto e un esistenzialismo filologico/filosofico potentissimo, già gremito di semi per il cinema che verrà, quello della Storia, del potere, dei fantasmi dell’arte. C’è Mournful Unconcern (1983, ma anch’esso distribuito nell’87 per censura), c’è la fantascienza spaesante di I giorni dell’eclisse (1988), ci sono i rituali funerari di The Second Circle (1990) e l’atmosfera alienante e assurda di Pagine Sommesse (1994). Per amare La voce solitaria dell’uomo forse bisogna immedesimarsi in uomini dalla voce solitaria, bisogna innamorarsi dell’acqua e di quello che il cinema può specchiare in essa, bisogna approfondirsi in Sokurov, attraverso Sokurov, per la ‘grandeur’ di Sokurov.
Nicola Settis