LA VERITÀ (1960), di Henri-Georges Clouzot
Sosteneva Alfred Hitchcock, che probabilmente mai ha mancato il bersaglio con le sue brillanti e ficcanti definizioni, che Brigitte Bardot avesse “il sesso stampato in faccia”. La verità, penultimo e straordinario film di Henri-Georges Clouzot che ritrova, seppure in un restauro DCP dalla pasta decisamente troppo “moderna”, il grande schermo dell’Arlecchino di Bologna in occasione del Cinema Ritrovato 2017, è cucito quasi totalmente sulla bionda e sensuale B.B., sui suoi centimetri di pelle scoperta, sui suoi sguardi conturbanti, sul suo utilizzo sinuoso del linguaggio del corpo, sui suoi audaci movimenti sotto le coperte, sui suoi torbidi passi di danza a piedi nudi, sulle sue spalle che spuntano morbose dalla tenda come frecce scagliate da Cupido, ma anche sulla sua sorprendente intensità drammatica, in carcere come nel letto in cui si taglierà le vene, nei flashback sulla sua vita libera come nell’aula di tribunale in cui viene giudicata e sostanzialmente uccisa dall’ipocrisia sociale.
È una sorta di ribaltamento della dark lady classica in Clouzot, in cui colei che porta morte è anche l’unica che riesce ancora a esprimere vitalità in un mondo falso e ingessato nel suo perbenismo a ogni costo, mentre chi dovrebbe giudicare le sue azioni finisce invece per armarsi di gesuitica superiorità puritana e giudicare la sua morale, finendo per trasformare un processo per omicidio in una farsa, in un palcoscenico per la capacità teatrale di rielaborare i fatti da parte dei viscidi avvocati, in un’arena di boati e di (dis)approvazioni da parte del pubblico. In una cronaca agghiacciante di morte annunciata, in cui tutti sono vittime e tutti sono carnefici, perché il personaggio della Bardot mai nega di aver sparato, eppure tutto di lei viene messo in dubbio e accusato, compresa la sua disperazione, compresi i suoi ripetuti tentativi di suicidio, compresa la sincerità del suo unico amore in mezzo a un mare di piaceri passeggeri ed effimeri.
Sarà proprio la società, trincerata dietro al suo bigotto sessismo, a spingerla all’ultimo e definitivo atto estremo, sarà la società ad additarla come donna priva di costumi, sarà la società a umiliarla persino per le sue letture troppo libertine, mettendo in un certo senso sul banco degli imputati non solo chi, in preda a un istante di folle scoramento di fronte al rifiuto, ha svuotato un intero caricatore sull’uomo che amava, ma pure Simone de Beauvoir e il suo Les Mandarins, opera cardine del femminismo che, esattamente come La verità, anticipò il Sessantotto e la libertà sessuale.
Ispirato al reale fatto di cronaca che, nel 1953, vide la giovane Pauline Dobuisson alla sbarra degli imputati con l’accusa di aver ucciso il fidanzato che l’aveva lasciata, La verità è un film processuale in piena regola, al quale non interessa però stabilire l’innocenza o la colpevolezza della protagonista, quella Dominique Marceau cui presta volto e corpo Brigitte Bardot, ma piuttosto riflettere sulla società e sui suoi preconcetti, sulla giustizia e sulle sue manipolazioni, sulla morale e sulla tragedia personale, su come sia forse impossibile trovare realmente La verità senza incorrere nei filtri del punto di vista. Per fare tutto questo, Clouzot mette in scena l’estrazione dei giurati, le vere e proprie performance degli avvocati fatte di ipotesi e di obiezioni, le testimonianze dei teste trasformate a seconda delle convenienze in prove inconfutabili o in inaffidabili fantasie, e solo nel loro dipanarsi inserisce la struttura a flashback che, con la precisione di un narratore onnisciente, ricostruisce le fasi della pruginosa vita parigina e amorosa della ribelle Dominique.
Da una parte ci sono i suoi tradimenti, le sue avventure, le sue aperte provocazioni “non certo da educanda”, e dall’altra c’è il sentimento che la lega alla sua vittima, c’è la lunga attesa a cui lo sottopone “come un fidanzamento” prima di poter consumare la loro passione, c’è la gelosia nei confronti della sorella che gli porterà via l’uomo amato, vero e proprio doppio fra la bionda e la mora, fra la focosa e la pudenda, fra l’emancipata edonista e la seriosa musicista, entrambe innamorate e in diversi tempi ricambiate dello stesso uomo. È un’intera vita, quella che viene giudicata, ed è l’emancipazione femminile ciò che, in un processo alle intenzioni e ai sentimenti, alla sincerità e alle emozioni, la corte di bigotti che si sentono senza peccato e che per questo giudicano non riesce ancora ad accettare.
È in sostanza sulla stessa natura femminile di Dominique che le autorità puntano il dito, e non si scuotono più di tanto, anzi sono quasi sollevati, nemmeno quando l’udienza verrà tolta perché l’imputata non c’è più, suicida su un letto candido e non più lubrico. Come se Dominique per tutti loro fosse semplice carne da macello, una semplice occasione per corroborare il proprio ego e il proprio moralismo in quella grande lotteria chiamata (in)“giustizia”, gli avvocati si danno appuntamento all’udienza successiva, al prossimo caso, al prossimo carnefice da trasformare in vittima. Senza un solo barlume di senso di colpa, nemmeno tardivo.
Marco Romagna