LA TROVATELLA (1931), di John Ford
Quali sono le prime parole che vengono in mente udendo il nome di John Ford? Cinema, Western, Storia. Viene in mente l’intervista condotta al regista del Maine da Peter Bogdanovich, durante la quale Ford, come risposta alla domanda, «come hai fatto quella inquadratura?», ha detto con umoristica arroganza «con una macchina da presa». Viene in mente una Storia del Cinema che va dal 1917 al 1966, viene in mente Orson Welles che lo definisce il miglior regista di ogni tempo, e vengono in mente altri nomi che lo citano tra le proprie influenze: Kurosawa, Scorsese, Truffaut, Wenders, Leone. Vengono in mente le inquadrature di apertura e di chiusura di Sentieri selvaggi (1956), il volto statuario di John Wayne in Fort Apache (1948), la diligenza-mondo di Ombre rosse (1939). Non viene in mente immediatamente invece La trovatella, capolavoro (semi)dimenticato di inizio anni ’30, meravigliosa commediola a sfondo sociale che, con una durata esigua (un’oretta abbondante), porta qualcosa di nuovo al nome troppe volte nominato a caso di Ford. Il meraviglioso restauro al MoMa portato (sigh) in Sala Volpi a Venezia è stata una delle cose più belle del festival, e in particolare dei suoi primi giorni, quelli più densi di opere commerciali e meno sperimentali – insomma, i giorni di Chazelle o Villeneuve, non i giorni di Bill Morrison o Lav Diaz.
Protagonista de La trovatella è la bellissima e riconoscibilissima Sally O’Neil, 23enne all’epoca delle riprese, volto presentissimo nel mondo del melodramma d’inizio ‘900 (vedere film come Io e la boxe (1926) di Buster Keaton e La battaglia dei sessi (1928) di D.W. Griffith). La storia gira attorno ad uno scrittore imborghesito e altezzoso di nome MacMillan che, incontrata in tribunale un’anonima trovatella, processata per non aver pagato degli spaghetti in un ristorante italiano («My spaghetti are good!» urla il ristoratore con un accento meraviglioso), decide di ospitarla nella propria villa in campagna, studiandola per migliorare la caratterizzazione di un personaggio del suo nuovo romanzo. Nella villa, la trovatella fa la conoscenza di varie persone: il fratello ubriacone (durante il Proibizionismo…) di MacMillan, la madre, il simpatico e generoso maggiordomo Timson, un vescovo che spesso bazzica per casa loro, e Jane e Angela, le due spasimanti di Macmillan che rivaleggiano per le sue attenzioni tutto il giorno. Il film punta tutto su come l’atteggiamento menefreghista ma umanissimo della trovatella riesce, mano a mano e molto lentamente, a cambiare, in maniera imprevedibile e irrealistica, la maniera di pensare dei vari personaggi che abitano la villa. Incontri, scontri, innamoramenti… andando verso un lieto fine che ha dell’incredibile, si ha uno scorcio d’umanità bellissimo e onestissimo, nel quale la trovatella esce come vincitrice morale totale. MacMillan, di cui in principio la trovatella si innamora, è una rappresentazione caricaturale e spesso insopportabile del giudizio nella società borghese americana, una figura tragicomica che, minuto dopo minuto, viene sempre più eclissata dagli altri personaggi, fino a raggiungere, quasi in sottofondo, anch’egli una qualche caratura morale più o meno evidente. I personaggi, anzi, come in tradizione hollywoodiana, si possono suddividere più o meno distintamente in “buoni” (che sono buoni da subito e non smettono di esserlo) e “cattivi” (che lentamente, grazie alla trovatella e al susseguirsi degli eventi, vanno verso una sorta di bontà): i primi costituiti dalla trovatella, da Timson, dal vescovo e dal fratello di MacMillan e i secondi costituiti da MacMillan, sua madre, Jane e Angela. La narrazione è sospesa in un tono comico costante, con una positività che emerge da ogni inquadratura (un bianco e nero bellissimo) e con una dolcezza umoristica adatta, qui, al tocco di Ford.
Il personaggio chiave è ovviamente la trovatella stessa, simbolo del (sotto)proletariato, iconica e senza nome come il personaggio di Joan Fontaine in Rebecca – La prima moglie (1940) di Hitchcock. Affascinante in maniera volgare e popolare, è lei a restituire la magia al mortorio della società borghese, è lei insomma a “creare” il cinema perché è lei a “creare” sè stessa (come personaggio del romanzo), la narrazione, la vita. È come se la sceneggiatura, di per sè ispirata ad uno spettacolo teatrale del 1917 da cui avevano già tratto un film muro nel 1919, volesse dire che è dalle piccole cose, dall’assenza di modestia del proletariato e dalla semplicità degli esseri umani che nasce la grande vitalità e la grande positività che si vede nel cinema, e che magari viene a mancare nella vita. Questo incredibile film dimenticato di Ford, ad esempio, nella sua umile brevità, contiene più vita e bellezza di una qualsiasi commedia a sfondo sociale dei giorni nostri, nel suo bellissimo irrealismo — è grazie (o per colpa di) film del genere che a volte ci troviamo nell’amarissima condizione del dirci nostalgici del cinema di una volta… e se siamo in errore o no ce lo potrà dire solamente la Storia.
Nicola Settis