LA TARTARUGA ROSSA (2016), di Michael Dudok de Wit
“Anche la tartaruga
conosce il tempo
della luna primaverile.”
Kobayashi Issa
Alla fine dunque il testimone è stato passato e il logo dello Studio Ghibli diventato rosso, come la tartaruga del film, come fosse la fumata bianca del papa. Dopo aver consegnato alla storia le loro due opere definitive, e dopo che si è deciso di non proseguire nel segno della continuità con i nuovi autori cresciuti in seno allo studio, Isao Takahata e Hayao Miyazaki tracciano il futuro della loro fabbrica dei sogni con l’animatore sperimentale olandese Michael Dudok de Wit. Un senso della grafica e dell’estetica molto lontana dalle tradizionali figure di Totoro e compagnia e allo stesso tempo, con i suoi finora pochi cortometraggi, de Wit ha mostrato una concezione dello spazio e dell’immagine molto più vicina alla classicità giapponese di quanto possano esserlo gli stessi animatori Ghibli, e una poetica dell’uomo e della natura che si avvicina comunque a quella di Miyazaki e Takahata. Per sua stessa ammissione Michael Dudok de Wit annovera tra le sue ispirazioni estetiche la calligrafia cinese e giapponese e in generale l’antica arte orientale. Se guardiamo alle sue opere precedenti, Father and Daughter, Le moine et le poisson e anche i suoi spot pubblicitari, troviamo per esempio linee di demarcazione a carboncino e tecniche di acquarelli che richiamano alla tradizione antica cinese e giapponese come le sumi-e (inchiostro nero a diverse concentrazioni) o il tarashikomi (mescolare i colori con acqua per ottenere ombre). In generale sembra, con le distese immense di paesaggio, i campi lunghissimi, che l’animatore olandese persegua il concetto di vuoto, che è anche un pieno, elaborato dal Taoismo e poi dal Buddhismo Zen, l’idea di vuoto o vacuità (mu). Basta raffrontare il dipinto simbolo di quest’ultima filosofia, Pini nella nebbia di Hasegawa Tōhaku (XVI sec.) con l’estetica dei corti di de Wit per accorgersi della somiglianza. E l’uso di linee verticali, per alberi, piante di bambù (anche molto frequenti in La tortue rouge/La tartaruga rossa) che lo stesso animatore fa derivare alle linee sulla sabbia dei giardini Zen. Quella ricerca estetica che è anche propria dell’ultimo Takahata. Naturalmente i debiti iconografici di de Wit sono anche altri, Il racconto dei racconti di Yuriy Norshteyn o gli sfondi di Kihachiro Kawamoto per restare nel campo del cinema d’animazione. Mentre il finale di Le moine et le poisson, con il ribaltamento di interno ed esterno, acqua e cielo, vuoto e pieno, sembra rifarsi a un artista connazionale come Escher.
Dovendo passare all’animazione industriale – tale è quella dello Studio Ghibli e il termine non è da intendersi come negativo – Michael Dudok de Wit ricrea la sua poetica visiva in chiave di maggior naturalismo, ancora dominata da quei vuoti fatti di mare, cielo, distese di sabbia, riempiti da piccoli dettagli, in una storia di cast away, che segue i canoni della narrazione di sopravvivenza di un naufrago su un’isola deserta, novello Robinson Crusoe. La tortue rouge è una fiaba silenziosa e mesmerica, dove l’autore rielabora quella poesia della natura di Takahata e Miyazaki, facendola impersonare da una tartaruga marina dal colore rosso. Una creatura solitaria e longeva che solca l’oceano. Una sirena o una variante pacifica di Moby Dick. Come il pesce imprendibile dal monaco di Le moine et le poisson – con cui conclude in una danza di riconciliazione – che è la rappresentazione di Cristo, la tartaruga è una figura allegorica. Come funzione narrativa serve a impedire che il naufrago riesca ad andar via dall’isola. E nella figura della donna, di una Eva, dà origine, nell’isola darwiniana colonizzata, a un nuovo ciclo della vita. Il tempo circolare, non lineare – ancora una concezione orientale – che de Wit aveva rappresentato in Father and Daughter, simboleggiato, anche in altri suoi corti, dalla ruota della bicicletta, ora si iscrive in un limbo temporale, un non tempo, una camera rococò da 2001: Odissea nello spazio. Nella monotonia e nella routine della vita del naufrago in un’isola tropicale, dove nemmeno si alternano le stagioni, nel ritrovato rapporto simbiotico tra uomo e natura, si innesca un nuovo ciclo della vita, di riproduzione, nascita, crescita e morte, ciclo che accomuna gli esseri umani ai gabbiani e ai granchi. Il concetto di separazione e riunificazione, caro a de Wit, diventa qui quello tra l’individuo e il tempo. Il film Ghibli dell’animatore olandese è pervaso ancora da un concetto estetico classico giapponese, quello di yūgen: la possibilità di cogliere un bagliore in un’opera d’arte, l’impressione fugace di rivelazione di un segreto dell’universo. E con La tartaruga rossa si perpetua, sotto altre forme estetiche, tutta quell’atmosfera magica e affabulatoria dello Studio Ghibli.
Giampiero Raganelli