“Le formazioni sovrane non avranno altro intento che quello di mascherare l’assenza di scopo e di senso della loro sovranità attraverso lo scopo organico della loro creazione”
Pierre Klossowski
«Il film è imperniato sul concetto di telenovela e strutturato sul presupposto che la realtà cilena non esiste, ma è un collage di soap. Ci sono quattro province audiovisive e si teme la guerra fra fazioni. I problemi politici ed economici sono immersi in una gelatina di fiction e divisi in episodi seriali. L’intera realtà cilena è inquadrata dal punto di vista della telenovela, che fa da filtro rivelatore della realtà stessa». Così parlava Raúl Ruiz del suo film incompiuto, quasi come se già fosse dovuto essere un testamento, o forse solo una chiave di lettura della società cilena (e non solo) un quarto di secolo dopo, in un’epoca in cui il reale è sempre più trasfigurato dall’immagine. Ruiz era appena tornato in Cile, alla conclusione di quel dramma storico, politico e culturale rappresentato dalla dittatura di Pinochet. Proprio da lì era fuggito nel 1973, a seguito del Golpe, quando (ai tempi di Allende) fu il principale consigliere governativo per gli audiovisivi, anche per quanto riguarda il lato più documentaristico ed educativo, rivoluzionando la stessa idea del cinema politico (in special modo il realismo socialista, quello che in Brasile si definì poi estetica della fame) che aveva contaminato buona parte dei secondi anni Sessanta. Il suo linguaggio, estremamente libero da molti vincoli formali e narrativi del tempo, a contatto con la cultura europea (prima in Germania e poi in Francia) subì una splendida contaminazione di stili e linguaggi che filtrarono la sua sperimentazione con l’estetica dell’avanguardia. Affermando il senso dell’essere esule, o meglio esiliato, il percorso di Ruiz fu uno dei più straordinari e liberi tra quelli che hanno scortato il cinema verso una sua completa modernità attraverso un complesso rapporto di simulacri e di magia (legato anche a un seminale substrato di derivazioni pittoriche e letterarie) che donò alle proprie immagini un profondo senso poetico, filosofico e politico. Autore di straordinaria prolificità, in giro per il mondo e per i mondi spesso aiutato da un altro genio visionario e folle come Paulo Branco, Ruiz ha cercato ancor di più nell’ultima parte della sua carriera di giocare con il mistero del reale, alla ricerca di tempi e spazi da ritrovare (a cavallo tra i due secoli lo straordinario Les temps retrouvé e dieci anni dopo l’altrettanto sublime Misterios de Lisboa) fino a chiudere il cerchio con uno splendido affresco di intimissimo autobiografismo (La noche de enfrente). Rimaneva però, come spesso rimane destinato ai grandi, un tassello postumo, qualcosa che potesse in un certo senso far rivivere il suo cinema, e nel suo caso la stessa visione. Appena tornato appunto in Cile, nel 1990, Ruiz si soffermò su cosa era rimasto del proprio paese, e gli bastò solamente accendere la televisione per concepire La telenovela errante, straordinaria commedia iper(sur)reale che solo adesso, a sei anni dalla sua scomparsa, ha trovato in Concorso a Locarno70 la sua forma definitiva e i suoi primi applausi.
Tutto nasce da uno specie di seminario, tenutosi proprio in quell’anno, tra le eminenze grigie della cultura cilena. Il progetto per La telenovela errante fu enorme (anche se durato solamente una settimana di set, con riprese esclusivamente in 16mm), con centinaia di ore di girato che aspettavano di essere convogliate in qualcosa che forse nemmeno lo stesso Ruiz allora sapeva. Il progetto si interruppe per la mancanza dei fondi necessari per portarlo a termine e il girato rimase lì, quasi come se fosse solamente più una testimonianza. Un quarto di secolo dopo Valeria Sarmiento, la compagna del regista, ci ha rimesso mano adattando le riprese del tempo a nuove scene e cercando (in un’ora e venti) di restituire ai nostri occhi le potenzialità poetiche e politiche di un’opera straordinariamente originale. Sette giorni, sette quadri e sette storie; episodi collegati da un lieve filo tematico e mai narrativo in cui sono gli stessi attori/figurina a cambiare personaggio e posizione, in un gran teatro senza direzioni. Basta l’apertura per comprendere il senso dell’opera. Lui, lei e l’altro, si parla di socialismo e di muscoli, di carne e di spirito, di una realtà fatta a brandelli dal regime e ora alla caccia del nuovo padrone. I nuovi mostri hanno paura di una nuova guerra, vivono legati a un surrealismo che si pone come collante del quotidiano, si affermano come figure eccentriche alle prese con derive sempre più tragicomiche. Man mano che il film procede, entra in campo anche lo spettatore che osserva sul divano microstorie politiche, economiche e sociali attraverso piccoli televisori, nei quali in sostanza gli stessi attori/personaggi si guardano allo specchio. Lo stile è quantomai sgangherato ma tendente al barocco, e riesce a ricostruire fedelmente l’impianto iconico della telenovela con inquadrature lunghe e fisse, fotografia plastica e una recitazione straordinariamente eccessiva quanto ossessiva. Tutto è magnificamente sovraesposto, tra il delirio melodrammatico e il picaresco ruiziano. Il secondo e il terzo episodio riflettono sulla crisi e la violenza, dal quarto in poi la metafora si estende e i piani narrativi (?) si intersecano sempre di più. Una zoomata lenta sulla televisione ci porta all’interno di un altro set, gli attori si chiedono continuamente se sono all’interno della telenovela giusta o meno, gli sguardi in macchina si moltiplicano. Come in un mosaico dai tasselli sempre più indefinibili prosperano gli schermi e gli inserti, i protagonisti sentono di essere guardati e criticano in diretta il loro stesso lavoro. Si guardano e lo guardano, così come guarda chi è alla regia, del gioco e del potere. Le scatole sono infinite, il rapporto tra cinema e realtà è ormai solo relegato in una linea indefinita ed indefinibile, basta un movimento di macchina e il giocattolo si rompe, lacerando innumerevoli cornici. L’ultimo capitolo, il settimo, è aperto da una frase che potrebbe riassumere un po’ tutto (“Se ti comporterai male in questa vita, diventerai un cileno nella prossima”) e chiude magicamente il cerchio di un dramma da camera tra la parodia e l’assurdo, tra l’oscuro e l’opaco. Si muore e si rivive, in una circolarità continua ed inspiegabile. Ricompare Ruiz (dopo il quadro iniziale, che introduceva l’opera): il film è finito, l’omaggio è compiuto, un cinema è rinato, l’amore ha vinto. Non resta che festeggiare. In fondo è proprio la realtà cilena a essere una telenovela in continuo movimento, infinita e provvisoria. Tanto vale scherzarci anche un po’ su.
Quella di Ruiz appare, giustamente, come una riflessione composita ed articolata sulla cultura mediatica del proprio paese nell’ultimo decennio del secolo scorso, ma oggi probabilmente nasconde anche qualcos’altro. Pensiamo ora alla sterminata produzione di serie televisive in giro per il mondo e al loro consumo sempre più vorace, quasi patologico, da un pubblico fruitore sempre più distratto e alienato. Il crescente utilizzo di questo linguaggio dovrebbe quantomeno farci interrogare su cosa sia oggi la serialità, un prodotto al contempo destinato a convivere con mille limiti ma forte di possibilità commerciali sempre più esponenziali, e i motivi che hanno portato alla sua massificazione – già ventisette anni fa si sospettava che le serie potessero essere, in qualche modo anche prima del web, tutte uguali. Ma quello che rimane di questo film, in fondo, va ben oltre. Analizza il senso stesso della parodia, del regime di un’immagine e di quanto essa sia un inequivocabile momento di ridiscussione della realtà. Lo sperimentalismo della televisione cilena degli anni Settanta ora pare essere visto come il decomporsi di un cadavere squisito, come il senso incerto del tritatutto di un quotidiano alla deriva. Proprio come già sosteneva Ruiz, nel cinema non esiste la rima ma la metrica, perché non ha parole ma soltanto verbi; è solo il movimento, perenne quanto lo è l’immagine, e quanto lo può essere un emozione. Anche per questo motivo, questo postumo lavoro è qualcosa di contaminato e combinato, che si evolve di anagrammi, lasciando tempo al vedere, lasciando spazio a un calore umano che oltrepassi l’etere. Se, tornando alle sue riflessioni, il cinema è un ideogramma solipsistico che, come la letteratura, è un complotto tra scrittore e lettore, questo/a flusso/bozza di telenovela frammentaria ne può essere l’affermazione più perfetta e morbosamente evoluta. Anche qui si sente l’influenza vorace di Klossowski, dell’apogeo dello strutturalismo, nella pratica del fabbricare cinema come televisione, camminando sopra il baratro degli immaginari, scardinando la narrazione e dunque moltiplicandola all’infinito. Perché l’immagine per prima cosa è un buco nero come un foglio bianco, destino dell’oblio e spazio per una rivoluzione. Perché ogni film cambia continuamente nell’atto di essere visto e ricordato, e affonda nel momento in cui pare invisibile e dimenticato. Perché è sempre il film a comandare l’autore, a scegliere la via ed a cercare la direzione, a fabbricare se stesso e a decidere di essere altro. E il genio di Raúl Ruiz è stato proprio quello, partorire un’opera (come altre centinaia) e lasciarla alla propria vita, esterna a quella che esiste nel solo schermo. Dal passato e per il futuro, nell’infinito errante, come in una catena inarrestabile di omicidi dei quali non si può non ridere.
Erik Negro