THE SIREN (2023), di Sepideh Farsi
Ovviamente nessuno, nel momento in cui The Siren è stato concepito e ne è iniziata la lunga produzione, poteva immaginare quelli che sarebbero stati gli ultimi mesi dell’Iran, con le proteste per l’omicidio di Stato di Mahsa Amini a cui si era forse un po’ scostato il velo, con la violenta repressione e l’uccisione di centinaia di manifestanti attuata dalla Repubblica Islamica, con l’incarcerazione sistematica degli artisti dissidenti (e la liberazione di Jafar Panahi e di Mohammad Rasulof solo in questi giorni e passando per il loro sciopero della fame e della sete), ma anche con quella ciocca di capelli tagliata come simbolo di una lotta appena iniziata. Eppure non è un caso che si apra con il violento sacrificio religioso di un gallo, il film con cui l’iraniana Sepideh Farsi, dopo oltre venticinque anni di cinema live action fra Parigi che l’ha adottata sin dal 1984 e la nativa Teheran in cui fino a quando glielo hanno concesso non ha mai smesso di tornare, esordisce con ovvia co-produzione solo europea in un’animazione sin da subito dura, potente, simbolica, assieme avventurosa, poetica e straziante, ma soprattutto – molto più del (molto) francese Persepolis con cui Marjane Satrapi, in collaborazione con Vincent Paronnaud, nel 2007 aveva deciso di raccontare in disegni animati la sua vita – profondissimamente e sinceramente iraniana. Un lavoro con cui reimmaginare, rigorosamente in lingua persiana, il 1980 dello scoppio del conflitto con l’Iraq e ragionare sulle più profonde contraddizioni, sempre identiche nelle oppressioni di ieri come in quelle di oggi, di un Paese che ha scelto la via della teocrazia a costo di calpestare i suoi cittadini e le sue cittadine. È per questo che decide di aprire già con la morte, con gli schizzi di sangue, con le mani di un mujaheddin che si sporcano di rosso. L’immagine di un territorio già irreparabilmente feroce, socialmente martoriato dalla recente Rivoluzione Islamica e dall’adozione della Shari’a che solo pochi anni prima ne aveva radicalmente modificato l’assetto, le leggi e la condizione femminile. Eppure dura lo stesso il tempo rapidissimo del viaggio di un pallone dal dischetto fino alla porta, lo spazio che separa la (più o meno) pace dalla (conclamata) guerra. Nemmeno gli undici metri dei rigori di un campo regolamentare, ma molti meno, quelli di un campetto improvvisato ai piedi della raffineria di Abadan, in quel 21 settembre 1980 in cui sfruttando il fattore sorpresa, senza avere presentato preventivamente alcuna dichiarazione di guerra, le prime bombe irachene iniziavano a cadere sul territorio dell’Iran. Solo il quattordicenne Omid, impegnato in porta, le vede pochi secondi prima dell’esplosione, non appena la loro traiettoria si incrocia con quella di una palla che sembra diventare istantaneamente invisibile, non più interessante, del tutto inutile di fronte a ciò che sta accadendo alle sue spalle. Il resto sarà un fratello che parte volontario per il fronte, una madre che decide di portare in salvo i due fratelli più piccoli, un nonno che decide di rimanere, e poi quella vecchia barca del padre lupo di mare mai tornato dall’ultimo viaggio, “La Sirena di Abadan”, da riparare e trasformare in Arca di Noé con cui salvare almeno parte degli abitanti di una città assediata, destinata a capitolare, a essere rasa al suolo e poi ricostruita solo alla fine del conflitto. Dopo oltre un milione e mezzo di morti, due terzi dei quali civili, rimasti sulla strada e negli obitori.
Non fa alcuno sconto Sepideh Farsi, nel suo montaggio sincopato e nei suoi cinepugni. Non dissimula nulla, non indora in alcun modo la pillola, e sfrutta le infinite possibilità di matite e lucidi per osare fino in fondo, per mostrare il difficilmente rappresentabile, per distanziarsi dalla messinscena della violenza e del dolore ma al contempo essere ancora più precisa e chirurgica nel delinearli. Con un’efficace animazione parziale (aiutata qua e là dalla motion capture e dall’elaborazione 3D) dai tratti essenziali e dalle colorazioni nette dove i freddi esplodono nel rosso del fuoco che entra di prepotenza nella guerra, nei raid aerei, nei morti e nei feriti sulle strade, nei mucchi di cadaveri parcheggiati nelle celle frigorifere in mezzo alle confezioni di gelato, nei cani mutilati dalle esplosioni che saltellano sofferenti sulle tre zampe insanguinate. Nell’aereo di un bambino che diventa il caccia in volo sulla città, negli uomini armati che occupano ogni singolo angolo di strada, e nella bicicletta di Omid che, con un occhio a Roma città aperta, si trascinerà sull’asfalto dopo la caduta cercando inutilmente di fermare il camion dei soldati in partenza per le trincee. Perfino gli squali del Golfo Persico, una volta pescati, giacciono con il ventre aperto e le interiora esposte, proprio come i galli che perdono il combattimento, e che finiranno immancabilmente nel primo cestino della spazzatura disponibile. Ci sono le autopsie, ci sono i cortei funebri, ci sono le continue tombe ricavate in ogni terreno disponibile. E c’è il fronte, in cui Omid si fa portare alla ricerca del fratello, salvo rendersi conto di essere troppo giovane e più ancora degli altri inadatto alla guerra, restituire il fucile al comandante, lavare via il sangue e la terra che ricoprono il suo viso e tornare ancora una volta a casa. Ma c’è anche spazio per i brividi di strazio, nel film che apre in prima mondiale la sezione Panorama della 73ma Berlinale, con le lacrime del protagonista quando gli appare di fronte il sepolcro del fratello caduto, e più ancora con quelle del nonno quando la sera, per commemorarlo, si ritrovano insieme a suonare il tamburo e la zampogna. Forse la stessa musica, straziante e sublime eppure ormai proibita per legge perché troppo occidentale, che aveva reso famosa e importante la cantante Elaheh prima che la Rivoluzione di Khomeini la costringesse al velo e a non uscire più dalla casa dove conserva immagini e dischi dei tempi di libertà che furono, e non è certo casuale che sua figlia Pari, dando assistenza ai feriti mentre insieme a Omid scopre le regole della reciproca attrazione, non si faccia il minimo problema a usare il suo hijab in strada per tamponare una ferita, nello sguardo da qualche parte fra l’attonito e l’innamorato che si posa per la prima volta sui suoi lunghi capelli neri. Un sogno a occhi aperti, come quello in cui immaginarsi leggermente virato verso la seppia in un Iran laico che non esiste più e proprio per questo è destinato a sgretolarsi, fatto di coppie liberamente a passeggio, di concerti, di donne libere e di cinema (evidente il riferimento all’incendio doloso del Rex di Abadan del ’78 già reinventato da Shahram Mokri in Careless crime) che ancora potevano proporre film americani. Ma anche come quello in cui inseguire il fratello su per i ponti della barca paterna superando una pletora di fantasmi senza volto, o come quello in cui immaginarsi novello UFO Robot che, con la moto di Omid, esce dai teleschermi per fermare le bombe nel cielo.
Ma soprattutto c’è una carrellata di personaggi, incontrati dal protagonista durante le consegne di cibo, con cui Sepideh Farsi e il suo The Siren analizzano un’intera società in tutte le sue fasi più drammatiche. Fra chi rimane di vedetta su una torre a puntare i cannocchiali sul fronte e a lanciare apposta falsi messaggi via radio da fare intercettare al nemico, i sacerdoti cattolici di origine armena che non smettono nemmeno per un secondo di suonare l’organo per l’effigie della Vergine Maria, l’ex fotografo senza più pellicola che però forse sa dove trovare una bottiglia di vino clandestina, e il capitano che non vuole più navigare ma che è l’unica possibile salvezza per tutti gli altri. Ma anche i soldati che decidono di partire e quelli che non riescono a tornare, gli alti ufficiali che discutono dell’inevitabile capitolazione senza rendersi conto che un ragazzino li sta ascoltando, e poi Elaheh, ancora ricordata e amata da tutti quelli che in passato si sono commossi per una sua canzone, e che adesso sperano con tutto il cuore che “La Sirena di Abadan” si porti al più presto al di fuori del tiro di quei cannoni che viene ordinato da più in alto di far sparare contro civili inermi e disarmati. Ma soprattutto c’è l’ingegnere gattaro che da un appartamento sventrato guarda la ‘sua’ raffineria che brucia. È lui che – in uno Stato teocratico – osa dare la colpa della guerra a Dio, di fatto «traditore» nell’aver creato il Bene e il Male per proprio onnipotente diletto, lasciando che sia l’uomo «a sua immagine e somiglianza» a dover pagare il conto dei peccati. Una frase e una presa di posizione per cui non è difficile immaginare il nuovo inserimento di Sepideh Farsi, pure se residente all’estero, anche nelle prossime liste di proscrizione del regime persiano che già a 16 anni l’aveva incarcerata per le sue proteste anti-khomeiniste e che nel corso degli anni di carriera ha sempre puntualmente vietato l’uscita di tutti i suoi lavori in patria (tanto da farla pubblicamente lodare l’intervento della pirateria audiovisiva, unico modo per far giungere anche in Iran i propri messaggi), e che in questo ben preciso momento storico rende ancora di più il suo film un vero e proprio atto politico. Con cui rivendicare ancora una volta il diritto di essere donna e di essere libera, con cui chiedere a gran voce, a costo di provocare apertamente, uno Stato nuovamente laico e moderno, con cui letteralmente combattere, da uno schermo, contro i soprusi e le ingiustizie del Paese che è stata di fatto costretta a lasciare e dal quale è attualmente bandita, ma che non ha mai smesso di sentire il proprio. Per radici, per identità, per appartenenza. Per la ricerca di equità e giustizia di una lotta comune, destinata ad andare avanti. Se sarà davvero un’altra Rivoluzione di segno opposto, lo potrà dire solo il futuro. Per adesso la salvezza è lì, giusto un paio di onde più avanti. Basta riuscire a raggiungerle senza fermarsi, sani e salvi, pronti a una nuova vita più felice, più libera, più giusta. Senza più polizie morali, senza più imposizioni e repressioni, senza più dolore. Senza più macchie di sangue da dover lavare via.
Marco Romagna