LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE (2017), di Woody Allen
«It was Coney Island, they called Coney Island the playground of the world There was no place like it, in the whole world, like Coney Island when I was a youngster No place in the world like it, and it was so fabulous. Now it’s shrunk down to almost nothing, you see And, uh, I still remember in my mind how things used to be, and… uh, you know, I feel very bad But people from all over the world came here… From all over the world… It was the playground– they called it the playground of the world, over here Anyways, you see, I… uh… You know… I even got– when I was very small, I even got lost at Coney Island, but they found me. On the… On the beach And we used to sleep on the beach here, sleep overnight… They don’t do that anymore. Things changed, you see They don’t sleep anymore on the beach»
Godspeed You! Black Emperor, Sleep, dall’album Lift your skinny fists like antennas to heaven! (2000)
Woody Allen all’inizio de La ruota delle meraviglie agisce nella stessa direzione in cui si muove Todd Haynes nei suoi film migliori, ovvero con il ricalco schematico e commosso dei capolavori di Douglas Sirk. Allen parte con Lo specchio della vita (1959), con una spiaggia affollata che è, di per sé, una specie di prima impressione di un ‘all-american-world’ fatto di fantasmi computerizzati, effetti speciali asserviti alla ricostruzione di un mondo che non c’è più. Un mondo che di per sé è paradossale, perché il parco giochi Deno’s Wonder Wheel Amusement Park nel 1946, ovvero almeno 4 anni prima del momento in cui il film è ambientato, fu vittima di un tremendo incendio. La “ruota delle meraviglie” del titolo esiste ancora e resiste al tempo, baluardo delle potenzialità oculari del mondo di Coney Island, che diventa dunque una specie di mondo a parte con una normalità tutta sua, che rievoca quelli che sono ormai denotati come tradizionali dogmi della narrazione alleniana recente: tradimenti, donne nevrotiche, omicidi quasi casuali, tentativi di redenzione, un passato fatto di costumi che non esistono più, citazionismo forsennato. Sembra da anni ormai che il caro Woody vada quasi in pilota automatico, e per molti è una cosa che va aspramente criticata: non c’è più la verve di una volta, è tutto un giochino postmoderno che lascia il tempo che trova, privo di umiltà, di onestà, di originalità. In realtà ci pare che Allen stia intraprendendo un percorso sempre più complesso ma anche sempre più coerente, in cui le sue ossessioni ritornano sempre a mettersi in gioco seguendo schematismi ripetitivi, ma le piccole differenze tra un film e l’altro spesso riescono a mettere in gioco la sua capacità di innovarsi o anche di prendere posizione rispetto a queste critiche. Il pilota automatico non è solamente un pretesto per riuscire a seguire il programma prestabilito di un film all’anno, ma è anche una maniera per costruire una filmografia che ragiona quasi per movimenti musicali, con minime variazioni che esplicitano tutta una sfera semantica e discorsiva che mischia l’esistenzialismo con il manierismo in un conflitto mutevole costante. Già Irrational Man (2014) aveva come idea di base una sorta di percezione metastatica e deformante di una guerra interiore, in cui tutto ha la potenzialità di spostarsi seguendo una visione telecomandata e anti-emotiva di un’idea drammatica di giustizia, ma da qualsiasi minimo mutamento della superficie può scaturire un’esplosione emotiva, capace di trasformare qualsiasi ‘delitto perfetto’ in un approfondimento sempre più vorticoso e disperato nel Sé del personaggio. La ruota delle meraviglie appartiene ai dogmi narrativi alleniani solamente, appunto, se si osserva la superficie, ovvero la trama: donna nevrotica (Kate Winslet), con figlio piromane da un primo matrimonio, sposata con un rozzo giostraio (Jim Belushi), si ritrova in una relazione clandestina con un giovane bagnino, Mickey (Justin Timberlake), veterano e intellettuale, mentre ospita la giovane figlia (Juno Temple) del marito, in fuga da gangster che la vogliono fare fuori.
Se è vero che in tutti i film di Woody Allen c’è un personaggio con cui l’autore si immedesima, in questo caso questo personaggio è probabilmente quello di Justin Timberlake, un colto giovinastro che pecca di superficialità ed egoismo nel momento in cui cerca di comprendere e di rapportarsi alle donne da cui è attratto. Mickey è la voce narrante del film, con tanto di pretesto astratto fornito dalla conversazione diretta col pubblico, sguardo in macchina e rottura della quarta parete; ma è un narratore che fornisce un punto di vista singolo, che storpia lo schematismo del film, dando un’idea di disprezzo immotivato verso alcune delle marionette che fanno parte del cast del film, ma Allen ha l’accortezza di separare immagine e dialogo e dunque di delineare in maniera più che mai lucida il rapporto tra regia e sceneggiatura: le parole di Mickey potrebbero lasciar trasparire una sorta di critica anti-umanista, ma le immagini evidenziano una visione empatica. Quando Ginny, la protagonista tragica interpretata da Kate Winslet, giunge all’apice della propria metamorfosi, travestendosi (male) e avvolgendosi in una maschera antica con completa assenza di comprensione e di coscienza del proprio rapporto col reale e col teatrale, chiede a Mickey di ucciderla, come nelle tragedie greche, sul palco-mondo del suo appartamento, rappresentazione diretta di un qualcosa che esiste. Ma questo è mosso dalla sua timida ingenuità e dalla sua crudele ignoranza, dimostrazioni dell’incapacità di Ginny di comprendere il reale e la distinzione tra teatro e vita (cosa direbbe, mettiamo, Goldoni?), poiché nella tragedia greca l’omicidio è sempre evocato, mai messo in scena sul palco. È perciò che Mickey si allontana fuori campo, lasciando in evidenza, al centro dell’inquadratura, il coltello, manifestazione di un desiderio autolesivo, una specie di suicidio del passato. Allen stesso, insomma, è come se si eclissasse, lasciando lo spazio espressivo alla fotografia di Vittorio Storaro, che usa la colorazione degli interni, influenzata dal neon degli esterni, per privare o aggiungere calore emotivo alle immagini; insomma, proseguendo più o meno l’operazione in cui si cimentava Elia Kazan, pur in bianco e nero, quando metteva in scena film tratti dalle opere teatrali di Tennessee Williams. Il coltello smette di esserci, e il parco non c’è più, una vita non c’è più, il passato, quell’America, quei mondi sono definitivamente svaniti. Sono fantasmi che vorrebbero costruirsi un loro spazio emozionale, ma sono quasi costretti a voler fuggire dalla tradizione e dal tempo, rifugiandosi non in una speranza rarefatta ma in un finale, in una definitività. Che non c’è, oltre al ritorno alla noia della quotidianità.
Allen non si fa portatore di conclusione, e non ha mai agito in questa direzione – anzi, talvolta ha confezionato dei non-finali al limite col dissacrante o col frustrante, come ci esplicita in particolare uno dei suoi film più odiati dalla critica e dal pubblico, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (2010). Qua il non-finale tuttavia ha una valenza di diversa espressività: non è che il film non finisce, è che la conclusione della storia non può che prevaricare le regole di ciò che è il cinema che è preso come punto di riferimento. La storia d’amore non è storia d’amore ma è storia di odio represso, di sogni infranti, di ossessioni brucianti che nascono dall’amore per la finzione e dunque per il plastico, da cui deriva il cinema. Kate Winslet, antieroina tragica, decide di propria sponte di ri-adeguarsi a questa definizione del reale; Jim Belushi, nella seconda prova attoriale incredibile di questo 2017 dopo Twin Peaks, si confronta con un archetipo di padre/marito rozzo che è tutto fuorché irreale, diventando vittima involontaria e inconsapevole di un sistema melodrammatico cannibalizzante che si muove interamente da solo. Juno Temple è una bambolina e Justin Timberlake un belloccio, ma sono asserviti a dei personaggi umanissimi che finiscono anche loro di essere vittime. Di un Dio della finzione o di una donna, poco importa. L’unica cosa che sembra importare è l’ultima immagine: qualcosa che brucia, di nuovo, ma non più statuine impalpabili e stranianti, impossibili da ricollegare a qualcosa di concreto, quasi come se provenissero da dipinti di De Chirico, bensì qualcosa di vicino a un mondo riconoscibile, la scaletta del bagnino Mickey. Il pericolo si avvicina al cuore della narrazione perché la narrazione si interrompe. E forse anche il cuore stesso smette di battere, perché il riconoscimento, il punto cardine dell’empatia cinematografica, è ormai uscito fuori campo; e siamo tornati alla quotidianità, ovvero l’incomunicabilità, più americana che antonioniana, in cui non esiste l’odio ma anche l’amore diventa un fantasma. A questo punto Coney Island non può che tornare una mappa geografica di spettri privi di vita, come fu ne I Soprano, che Allen sembra citare attraverso il casting (impossibili da non riconoscere Tony Sirico e Steve Schirripa, che fanno coppia nei ruoli dei gangster che inseguono Juno Temple). Sembra di vivere in quel sogno premonitore, sospettando la morte o semplicemente aspettandola.
Woody fa un film all’anno, è attivissimo cerebralmente e corporalmente, ha più di 80 anni, è già sul set del suo prossimo film. E la sua opera non può che finire bruciando, come dando senso a tutto ciò che è parso incompiuto. O forse, chi lo sa, sottolineando il dramma dell’incompiutezza. Ma una cosa è sicura: i colori, i volti, i paradossi, i piani sequenza in interni de La ruota delle meraviglie, che in USA è già considerato uno dei peggiori Allen di sempre ma che noi osiamo considerare uno dei migliori dopo una singola visione, quelli sì, bruceranno a lungo nella nostra retina.
Nicola Settis