LA ROSIÈRE DE PESSAC (1968-1979), di Jean Eustache
Risale al 27 maggio 2015 la notizia che la nuova Rosière de Pessac, dopo una tradizione cittadina lunga centodiciannove anni, non sarebbe stata eletta. È stata la mancanza di candidate a decretare la fine di un rito antichissimo, creato nel 565 direttamente da san Medardo di Noyon e rinato dal 1896 proprio a Pessac, (sempre meno) piccolo borgo dell’Aquitania noto per aver dato i natali a Jean Eustache, omaggiato al 36mo Torino Film Festival con una magnifica retrospettiva quasi totalmente in pellicola. Così come in pellicola, in due copie 16mm pressoché perfette per stato di conservazione, sono state proiettate le due omonime versioni de La Rosière de Pessac, realizzate dal regista a distanza di undici anni l’una dall’altra a dipingere uno straordinario dittico d’affreschi antropologici e sociali dal cui confronto emerge il vero senso del film: lo scorrere repentino dei tempi, l’abbandono delle tradizioni (e dei valori), il mutarsi radicale della mentalità e della moralità popolare. Se infatti già nel 1968 – già, proprio il Sessantotto francese, nel quale come prevedibile «Non è più facile trovare una vergine» – Eustache era perfettamente consapevole di andare con il suo terzo film e prima incursione nel documentario a filmare una tradizione fuori dal tempo, non certo scevra di bigottismo e quindi in partenza anacronistica, è solo con il ritorno a Pessac del 1979 che il suo lavoro assurge a mappatura di un cambio radicale, con gli stessi riti nuovamente eseguiti nello stesso ordine ma in maniera svogliata, goffa, caciarona, totalmente demisticizzata, senza più crederci. Bastano dieci anni per passare dall’aura virginale e quasi sacra della Rosière 1968 alle chiacchiere fra i banchi dell’assemblea che decreterà l’elezione della giovane più meritevole del ’79 sugli aborti nascosti dalle Rosière precedenti, bastano dieci anni perché la madrina venga assegnata d’ufficio senza più alcuna emozione, bastano dieci anni perché non sia più un problema non poter incontrare subito la vincitrice del concorso, bastano dieci anni perché quella che era la festa religiosa con tutte le vecchie Rosière ancora in vita diventi un sostanziale picnic sui prati fatto di canti sguaiati e di rumore popolare, bastano dieci anni perché l’amore per la tradizione e l’assoluto rigore morale di un sindaco diventino il sostanziale prosieguo di campagna elettorale del suo successore. Bastano dieci anni perché tutto si svuoti di senso e di serietà, e non è un caso, ma questa è un’altra storia, che ancora dieci anni dopo, nell’89, la cerimonia sarà di fatto cambiata per statuto cittadino: come passo intermedio prima della fine della tradizione non servirà più essere la giovane ragazza più «virtuosa» della città, la più pia, la più modesta, la più generosa e la più gentile; per essere Rosière era diventato sufficiente distinguersi in attività sociali o sportive, oppure presentare un progetto interessante per lo sviluppo della città. Ma anche questo, dal 2015, non è più bastato per trovare una giovane candidata meritevole, e la tradizionale corona di fiori della prima domenica di maggio non è mai stata forgiata.
L’incipit è pressoché identico, in La Rosière de Pessac e La Rosière de Pessac 1979, perché in teoria identica è la tradizione che Jean Eustache, dal realismo sociale e antropologico delle sue messe in scena alla realtà sociale e antropologica di una cittadina in espansione e decadenza morale, va a filmare. Prima in bianco e nero e poi a colori, c’è sempre il salone del comune, ci sono sempre i discorsi inaugurali della cerimonia, ci sono sempre i rappresentanti che quartiere per quartiere portano e motivano la propria candidatura – chi è orfana e fa da madre ai fratelli, chi mantiene l’intera famiglia, chi ha dimostrato nei modi più disparati la sua completa integrità morale –, e c’è sempre la giuria, fatta di uomini e di vecchie Rosière, che si esprimerà in due o tre votazioni meticolosamente stabilite dalle ormai antiche leggi. È la medesima la piazza di Pessac, ci sono le stesse statue e ci sono gli stessi palazzi, ma già nella primissima parte della cerimonia, quando ancora non si sa chi sarà la nuova pulzella vestita di bianco e incoronata di fiori, la differenza fra il rigore quasi sacrale del ’68 e il pressapochismo di un ’79 in cui nemmeno il sindaco che presiede l’assemblea conosce le percentuali né i requisiti per le candidature è abissale, evidente cartina di tornasole di un interesse scemato e ormai quasi inesistente verso una tradizione portata avanti ormai più per inerzia che per sentimento popolare. Del resto, la società contadina era ormai quasi del tutto scomparsa fra l’industrializzazione e l’avvento del terziario, e radicalmente differenti non potranno che essere anche i due incontri con le giovani elette, la prima timida e schiva nella sua casa paterna, la seconda ben più emancipata e intraprendente con il suo lavoro fuori città, e radicalmente differenti saranno le giornate a loro dedicate, fra voli di colombi e concerti rock, messe e confraternite che accettano la prima donna, baci e strette di mano, discorsi e (non) commozioni. Jean Eustache immortala i discorsi delle autorità e dei paesani, ma non è tanto nella parola che sta il senso del suo progetto, quanto nei volti, nella loro sincerità, nella loro partecipazione, nelle loro attese, nei loro silenzi e nei loro applausi. Ma le emozioni del ’68, con l’ormai ultranovantenne Rosière del 1900 che, tenerissima con i suoi pochi denti e ancora perfettamente lucida al di sotto delle sue rughe, si congratula con la nuova mademoiselle appena eletta, vengono negli anni sostituite da una cerimonia in sostanza forzata, finta, non più vissuta ma in sostanza messa in scena. Senza che quasi nessuno se ne rendesse conto, probabilmente. E non è certo un caso che Jean Eustache, dopo aver filmato il doppio dietro le quinte e il doppio “grande giorno”, abbia deciso di chiudere la seconda versione del film con una differenza radicale rispetto alla prima: mostrare apertamente il suo dispositivo per rendere evidente quello generale. Una delle macchine da presa indietreggia, accogliendo nel suo campo l’altra che, con operatore e microfonisti, gira intorno alla Rosiére 1979. Come a dire che troppo spesso, anche nella realtà, non c’è nulla di vero. Ma anche che basta allargare lo sguardo per rendersi conto degli ingannevoli salamelecchi quotidiani di un tempo ineluttabilmente destinato al declino. Non bisogna mai dimenticarlo, e tenere sempre gli occhi bene aperti.
Marco Romagna