Viene quasi da immaginare un suggestivo e fertile dialogo a distanza fra l’Italia e gli Stati Uniti, nel rivedere a settantaquattro anni dalla sua realizzazione La rosa di Bagdad. Un rapporto molto meno unidirezionale di quanto la Storia racconti, fatto sì dell’indubitabile primogenitura sull’animazione di lunga distanza e in Technicolor di Walt Disney e del suo inarrivabile capolavoro Biancaneve e i sette nani, del quale fu proprio l’illuminante visione a spingere il pubblicitario bresciano Anton Gino Domeneghini verso l’impresa del primo film d’animazione e a colori italiano (o forse secondo, registrato in SIAE con un numero progressivo superiore a I fratelli Dinamite di Nino Pagot presentato nel 1949 alla medesima edizione della Mostra di Venezia, anche se i sette anni e tre differenti studi necessari al complicato compimento de La rosa di Bagdad in un’Italia a cavallo fra i bombardamenti e il primo dopoguerra trasformano questa questione in una mera quisquilia statistica), ma anche di idee, ispirazioni e suggerimenti diventati con il tempo reciproci, mutuali, condivisi. Un rapporto che, se non è proprio come la faccenda dell’uovo e della gallina, appare per lo meno come un’onda di intuizioni, tecniche e trovate prima giunta da oltreoceano agli occhi di un Domeneghini pronto a convincere l’industria italiana del tempo a raccogliere i mezzi necessari per passare dal passo uno con i pupazzi ai disegni animati, e poi dal 1952 della prima edizione americana doppiata in inglese fra gli altri da un’esordiente Julie Andrews ritornata a(lla) Disney nella sua risacca, per una sostanziale co-scrittura dell’immaginario del cinema d’animazione tradizionale classico, per un vero e proprio concorso nel codificarne gli elementi fondanti e i tratti con cui disegnarli, per un’autentica compartecipazione nello sviluppo della fluidità, del linguaggio del corpo e delle intrinseche gag dei movimenti di ciascun personaggio.
Perché è innegabile che La rosa di Bagdad, restaurato e presentato come piccolo viaggio nella Storia a Locarno76 fra le proiezioni uniche e magnificamente piene di bambini di Locarno Kids, sia un film dichiaratamente derivativo, nell’innestare in una vicenda ispirata a Le mille e una notte il nume tutelare, l’alternanza gag/canzone, la visionarietà e gli inserti apertamente orrorifici dei primi lavori lunghi disneyani – si veda il mago Burk, perfido aiutante dell’ancora più perfido sceicco Jafar, con il suo unico dente e il mantello nero così simili alla strega in cui si trasformava dodici anni prima la regina di Biancaneve, ma anche il canto in cortile della principessa “Rosa di Bagdad” e i tre consiglieri Tonko, Zirko e Zizibé presentati con dinamiche e inquadrature pressoché identiche al momento in cui i sette nani scoprono Biancaneve fuggita e addormentata sui loro piccoli letti, per poi farli entrare e uscire dalle loro tre porte esattamente come nel ’40 facevano gli orologi a cucù di Mastro Geppetto nella prima parte di Pinocchio, che a sua volta nel suo aspetto dopo essere diventato un bambino vero sembra ispirare il character design del suonatore Amin, mentre la sua gazza quasi replica le danze dei fenicotteri e degli ippopotami di Fantasia, sempre del 1940 e citato anche nello sbocciare dei fiori, e i quadri comici sugli altri animali nel bosco sono più che debitori a quelli che nel ’42, data di inizio lavori per La rosa di Bagdad, riempivano gli occhi (anche di lacrime) ai primi spettatori di Bambi. Eppure, nel pionieristico cartone animato di Domeneghini, non è difficile rintracciare quelle che, non ancora presenti o appena accennate nelle Silly Symphonies degli anni precedenti, saranno illuminazioni e soluzioni dei Classici Disney che sarebbero venuti magari decenni dopo, pensate fra la metà e la fine dei Quaranta e forse insinuate, dalla piccola Italia, nelle menti e nelle matite di quella Casa del Topo che nel frattempo sarebbe diventata sempre più importante e sempre più gigantesca. C’è quel topino simpatico e cicciottello che anticipa di almeno un anno il Gus Gus di Cenerentola, per esempio. Ci sono i fotogrammi di quel volo di Amin con il mantello magico che saranno poi, nel ’53, grossomodo i medesimi in Peter Pan. Ci sono i tre serpenti incantati dal giovane suonatore di flauto che si intrecciano in forma antropomorfa e poi rientrano insieme nella loro cesta proprio come faranno nel ’67 ne Il libro della giungla. C’è la teiera che sbadiglia anticipando addirittura di quarantadue anni la domestica trasformata ne La bella e la Bestia, e ovviamente ci sono l’ambientazione, i fondali, la lampada con il suo genio e perfino il nome e le fattezze spigolose del villain Jafar che sembrano essere state la base di partenza, nel 1992, per Aladdin.
Il resto, pur se non perfettamente fluido proprio in ogni movimento e in definitiva un po’ schematico nella narrazione, è una fiaba di avventura, amore (im)possibile, coraggio e altruismo con cui raccontare, con precisione visiva e alta qualità pittorica, il topos del piccolo contadino destinato a diventare re, anzi in questo caso califfo d’Oriente, e della principessa vittima di incantesimo alla quale salvare nei modi più disparati la vita. Con l’aiuto della magia e dell’etica del sacrificio (semplicemente straordinaria la sequenza in cui la gazza ladra di Amin si immola nell’impossibile e disperato tentativo di difendere il suo padrone dagli incantesimi di Burk, diventando un trofeo di caccia che solo nel momento in cui il mago verrà sconfitto e tutti i suoi malefici annullati potrà, insieme al messaggero trasformato in pietra e al libero arbitrio della principessa Zeila a cui sparisce dal dito l’anello malefico che ne lega i sentimenti al malvagio burattinaio Jafar, tornare alla vita), ma anche, molto più semplicemente, di continue trovate più e meno originali, con le quali costantemente cambiare registro, divertire, avvincere grandi e piccoli. Dalla macchina da scrivere a penna d’oca e calamaio, ma con un campanellino da suonare alla fine di ogni riga, al serpente che si annoda come un fazzoletto per ricordare il da farsi. Dalla gazza ladra che ha paura del carcere ma che serve per rubare l’anello maledetto prima che venga consegnato alla principessa e la faccia innamorare del cattivo, alla trasformazione in poppanti (con tanto di straordinaria performance vocale, in originale italiano, del sempre magnifico e gracchiante Lauro Gazzolo) dei tre consiglieri caduti nell’inganno della fonte dell’eterna giovinezza, fino allo spettacolo pirotecnico lanciato nel finale dagli arcieri, con i mille possibili colori delle loro frecce infuocate.
Poi, certo, la trasformazione punitiva, oggi giustamente improponibile nel suo aperto razzismo, di Amin in moro, con la sua pelle che diventa nera in modo che nessuno possa più riconoscerlo e con la sua soddisfazione nel momento in cui tornerà bianco, così come la voce parodistica e cartoonesca della donna afrodiscendente che spingerà Tonko, Zirko e Zizibé verso la magia che li renderà inservibili per quasi tutta la seconda parte, va oggi contestualizzata nella società del tempo, in un’Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale e dal ventennio fascista, come tutto l’Occidente ancora culturalmente arretrata e non pronta per quelle che successivamente sarebbero state le rivoluzioni nel pensiero e nella sensibilità contemporanea. Anzi, in qualche modo viste oggi forniscono, nella totale naturalezza con cui vengono enunciate e avvengono sullo schermo, un ulteriore spunto di riflessione su quelli che sono stati gli anni Quaranta, come una sorta di documento storico su una mentalità ormai (nemmeno troppo, in realtà, con il ritorno dei venti destrorsi a sferzare su mezza Europa e sulla parte peggiore degli Stati Uniti) rinnegata e da lasciare assolutamente nel passato a cui appartiene, ma non da nascondere, se non altro per (tentare di) evitare di incappare ancora una volta nei medesimi errori di un tempo. Ecco, magari da quegli anni sarebbe bello riprendere invece il coraggio, la voglia dei produttori di investire nell’animazione di casa nostra alla ricerca di quella via ipotizzata e grazie a Domeneghini, con pregi e limiti di un film non necessariamente perfetto ma per gli orizzonti dell’Italia non solo di allora semplicemente rivoluzionario, anche realizzata, salvo poi diventare la promessa non mantenuta da un sistema che non ha fatto nulla nei decenni successivi per dare continuità, lasciando all’iniziativa e all’autorialità personale di una manciata di sparuti autori (Attanasi, Bozzetto, Zac, Manuli, e ora D’Alò, Rak, Mattotti e Simone Massi che presenterà il suo primo lungo fra poche settimane a Venezia) la sostanziale esclusiva su un’industria animata in realtà mai nata, e che invece avrebbe potuto dire moltissimo. Sarebbe bastato proseguire su una strada già tracciata e incentivarla, anziché tarparle sistematicamente le ali.
Marco Romagna