LA REGIÓN SALVAJE (2016), di Amat Escalante
Quando comincia La Región Salvaje ci si trova di fronte ad un incipit cupo e misterioso, disorientante, affascinante, che riecheggia le atmosfere magnetiche e misteriosamente seducenti dei film di Carlos Reygadas, che con Escalante compone un interessante duo di registi messicani violenti, tragici e suggestivi, vincitori entrambi del premio al miglior regista a Cannes in due anni consecutivi (Reygadas nel 2012 per Post Tenebras Lux, Escalante nel 2013 per Heli). Ed è bello, al cinema, ai festival, ritrovarsi spaesati, non capire dove ci si trova, cosa si sta provando, cosa si sta guardando. E non leggere la trama del film sul catalogo è probabilmente la maniera migliore per apprezzare almeno la prima parte di La Región Salvaje (titolo internazionale contenutisticamente incomprensibile: The Untamed), un film in cui immagini apparentemente sconnesse e pregne di fascino surreal-kitsch sono unite con un montaggio fluido, affascinante, ermetico: si comincia con un asteroide e si passa a una donna, Veronica, interpretata dalla bellissima Ruth Ramos, che, seduta per terra, si masturba — o almeno così pare. La macchina da presa va all’indietro rivelando un particolare inatteso che va ad inserire questo morboso dramma nel reame dell’horror fantascientifico: un tentacolo, che fuoriesce dalla vagina di Veronica. Questo particolare, prima che la trama intensifichi i propri enigmi e il proprio erotismo respingente e viscido, già basta per far inserire il film di Escalante nel cinema weird, che è categoria a sé nell’ambiente underground, che è quel cinema che viene ricercato, richiesto e che raramente davvero riesce a soddisfare ogni suo spettatore — partendo dal presupposto che lo spettatore medio del cinema weird, più che ad un appassionato di cinema, è vicino ad un appassionato di stranezze, di misteri, di un tipo di vita alternativo al grigiore spento della quotidianità. Ma Escalante prova in maniera troppo esplicita a fare un film appartenente a questa categoria cinematografica, un film che deve stranire e angosciare, forse, ma che alterna piattume a eccentrismi gratuiti, non sempre con successo. Riesce a tramutare il morboso viscidume di una storia di amore e (soprattutto) di sesso composta da incroci di coppia e fellatio tentacolari in quello stesso grigiore spento da cui il cinema weird dovrebbe scappare attraverso i colori e il malessere umano (quello vero), non riuscendo a far vivere e a far respirare la scintilla del “piacere di essere scandalizzati” di cui parla tanto Pasolini.
Il problema principale di La Región Salvaje però non è nella sua estetizzante violenza manierista, non è nel suo erotismo pseudo-pornografico che mischia sensualità e disgusto, non è nel pacchiano né nelle (evitabili…) virate nel dramma famigliare di stampo indie, ma è probabilmente un discorso più ampio, suddivisibile in tre motivazioni strettamente legate l’una all’altra, tre “incapacità” di Escalante nel far respirare la propria storia e le proprie inquadrature:
- l’incapacità di sostenere un discorso senza spiegarlo, senza lasciar parlare solamente le immagini, cosa che sarebbe giusta per fare in modo che lo spettatore completi il film con le proprie capacità intellettuali;
- l’incapacità di sostenere più di un discorso unico, che è quello sulla sessualità, su cui regia e sceneggiatura premono così tanto l’acceleratore da offuscare completamente i pochi indizi di contenuto interiore, tra politica ed esistenzialismo, tra religione e psicoanalisi;
- ma soprattutto la devastante incapacità di fare un film originale e non composto da collage contenutistici, visivi e narrativi di idee di altri film, peraltro con rimandi veramente espliciti, dalla creatura lovecraftiana di Possession (1981), con Żuławski ringraziato nei titoli di coda quasi a presa per i fondelli, alla capanna di Antichrist (2009) di Lars Von Trier, con tanto di simbologia animale, fino alla simbiosi stanza-pulsione erotica sulla scia di Ultimo Tango a Parigi (1972).
Queste incapacità di Escalante s’intersecano in un plasticoso tentativo di imitare la repulsione più prepotente e inquietante dell’opera omnia dei grandi del cinema di genere, in cui letteralmente ogni soluzione visiva è come una ripresa più finta e disonesta degli stilemi e dei simboli del cinema altrui: dei film succitati, quello che viene più violentato e privato di significato è Possession, con la creatura mutevole creata da Carlo Rambaldi banalizzata in un aborto in computer graphic che ha la stessa fisicità, lo stesso “volto”, la stessa fallica carnalità, ma il viscidume, che in Żuławski faceva impressione e incuteva paura, qui stranisce, è solo imbarazzante e fuori luogo, è solo una copia; e una resa più pornografica dell’amplesso non intensifica la reazione di scandalo e impressione, ma ne elimina il significato, priva l’immagine dell’enigma, del vedo-non vedo, del fascino che lo spettatore può dare al film con il proprio sguardo. E il problema è proprio che l’enigma viene svelato e spiegato rivelando dunque come tutto il film sia basato su di un solo discorso, su di una sola rappresentazione visiva e contenutistica, su di un solo mondo, su di una sola visione della sessualità (sessualità come dipendenza, sessualità come pulsione animalesca, sessualità come incubo assassino dettato tanto dalle leggi del cervello quanto da quelle della scienza). Non bastano una serie di inquadrature di animali in CGI che si sodomizzano in un cratere, non bastano le analisi psicologiche superficiali dei personaggi, non basta una sensualità misteriosa e inafferrabile: lo spettatore urla allo schermo di volere qualcosa di più di un’accozzaglia di immagini asservite ad un qualcosa di già sentito, non ci si può quasi credere che un film con un montaggio così semplice ma affascinante possa essere davvero così banale nell’esecuzione, così poco innovativo, così falsamente coraggioso, quasi moralista. Tutto sommato, esclusa la bellezza formale del primo atto del film, il principale pregio dell’ultima opera di Escalante è il fatto che non scende mai troppo nel ridicolo, non riesce mai ad essere davvero pacchiano a livelli comici, riesce ad essere dignitoso, a modo suo, nell’essere comunque una cocente sconfitta.
Nicola Settis
edit: Vincitore del Leone d’Argento per la regia a Venezia 73 ex aequo Paradise di Andrei Konchalovsky – mah…