Se la mentalità provinciale, specie in Italia, è soprattutto piccola e meschina ipocrisia, spesso a questa si aggiunge il desiderio di migliorare i propri orizzonti nell’ordine della disponibilità economica. Il buon matrimonio, quello che prevede anche un’elevazione sociale e finanziaria, è del resto un tòpos narrativo che informa letteratura, cinema e vita reale da secoli. Più di frequente questo anima le ambizioni di figure femminili, desiderose di avere una bella vita, lontana dal contesto afoso in cui hanno avuto i natali. In La provinciale (Mario Soldati, 1953) è la bella e giovane Gemma a cercare una siffatta forma di felicità. Di Paolo, rampollo di una famiglia aristocratica, Gemma è pure veramente innamorata, ma il ragazzo garantisce anche l’elevazione sociale, il che non guasta mai. Ispirato a un racconto lungo di Alberto Moravia (il primo a essere portato al cinema) inserito nella raccolta L’imbroglio che vide la luce nel 1937, il film di Soldati prende le mosse da alcune premesse che rimandano al feuilleton e al romanzo d’appendice. Ma si tratta in realtà di una rilettura in chiave più reale e credibile, che trova motivazioni sociali più stringenti e che soprattutto si caratterizza per una robusta indagine nella psicologia di un personaggio. Altrettanto romanzesco è lo snodo che impedisce a Gemma di giungere al bel matrimonio con Paolo – si scopre che i due sono fratellastri, e il loro amore non può dunque compiersi.
Come afferma lo stesso Soldati, La provinciale «è il primo film serio che realizzo dal 1946 a oggi. […] Mi è stato spesso rimproverato di fare cose non serie, cose non vere, nelle quali non credo». Personalità fortemente eclettica, capace di spaziare con disinvoltura dalla letteratura al cinema al prodotto televisivo, il Soldati autore cinematografico è in effetti vittima di una diffusa trascuratezza che prima o poi dovrà essere sanata. Come già fu per il notevole Fuga in Francia (1948) il racconto di Soldati si fonda spesso su una serrata suspense applicata a materiali narrativi non convenzionalmente intesi come oggetto di intrigo. Succede lo stesso in La provinciale, che nel corso del racconto cambia più volte pelle assumendo in modo sempre più evidente le cadenze di un’indagine nell’anima di una donna. Un thriller dell’anima, si direbbe con linguaggio moderno, in cui la posta in gioco si delinea per un’imprendibile gioia di vivere, inseguita in uno slalom fra condizionamenti familiari e convenzioni sociali. Ne è vittima la stessa Gemma, animata da tenui ambizioni che le impediscono di trarre vera gioia pure dal matrimonio con il professor Vagnuzzi, giovane luminare di fisica, sposato in tutta fretta e senza troppa convinzione. La provinciale aderisce a tale costruzione di mistero e suspense avvalendosi innanzitutto di una struttura narrativa fortemente anticonvenzionale. Dopo un incipit inquieto che culmina nell’aggressione di Gemma alla contessa Coceanu, Soldati scompone infatti la linea narrativa seguendo i diversi punti di vista dei personaggi convocati. Mentre Gemma giace a letto prostrata dall’accesso di rabbia al quale si è lasciata andare, le altre figure umane s’interrogano sulle ragioni che hanno portato la giovane donna in tale stato di annientamento, e riflettono, ognuno colto da un diverso senso di colpa, sulle proprie responsabilità. Il flashback diventa così un’indagine nella psiche e nella memoria di Paolo, della madre di Gemma, di suo marito Franco. L’ultimo punto di vista è quello della stessa Gemma, ripresasi dal malore e decisa a dare conto dei suoi tormenti al garbato consorte.
La provinciale percorre così nuove modalità di narrazione che fin da qualche decennio prima hanno rivoluzionato in letteratura il concetto di romanzo. Conservando comunque una robusta adesione all’idea tradizionale di intreccio, il film di Soldati è animato infatti da un approccio innovativo che intende stratificare la consueta orizzontalità del racconto verso puntuali scandagli analitici nell’individualità dei personaggi. Si percepiscono consonanze con l’universo creativo di Michelangelo Antonioni (l’incomunicabilità, di fatto, impedisce a Gemma e ai suoi affetti più vicini di fare tesoro della condivisione dell’esperienza), e si registrano avvisaglie di un metodo narrativo che diventerà sempre più consueto nel cinema di Antonio Pietrangeli – i flashback, la frantumazione dell’io e della vettorialità narrativa. Nelle riflessioni dei personaggi la nota costante è il rimpianto, l’interrogativo intorno alla correttezza dei propri comportamenti, il dubbio sull’efficacia e integrità della propria condotta. Il dubbio, innanzitutto. Sono tutti sconfitti, i personaggi chiamati a riflettere sulla prostrazione di Gemma. Paolo si pone domande fondamentali sulla trascuratezza riservata a Gemma per anni. La madre si chiede se non avesse dovuto confessare prima a Gemma di essere sorellastra di Paolo. Il marito Franco, soprattutto, misura il peso del proprio egoismo, della sua incapacità di rendere Gemma una donna felice.
L’ultimo segmento, in cui Gemma ritornata in sé decide finalmente di puntare una luce sulla propria verità, assume di nuovo un passo narrativo più tradizionale, e la materia da feuilleton, aggiornata alla moderna Italia degli anni Cinquanta, riprende forza – il ruolo fondamentale della contessa Coceanu, alla quale Alda Mangini riserva una splendida prova attoriale. In tal senso La provinciale sembra aderire a modalità espressive da romanzo sperimentale del Novecento, senza lanciarsi in eccessive deflagrazioni del linguaggio filmico ma mettendo profondamente in discussione le consuetudini di realizzazione e fruizione cinematografica. Di pari passo, in tale labirinto di identità e memorie si segue a poco a poco la maturazione di una donna, frantumata e scomposta nei punti di vista degli altri e infine ricomposta da una finale catarsi nella confessione più sincera possibile.
È probabilmente il ruolo più bello e la prova migliore di tutta una carriera per Gina Lollobrigida, chiamata per la prima volta a doppiarsi con la propria voce. La maturazione arriva a un passo dal definitivo perdersi. Dopo aver nutrito vacue ambizioni di elevazione sociale, Gemma scopre a poco a poco che per essere meno provinciali bisogna vendersi totalmente alla società, adeguandosi a modelli etici dominati dal cinismo e dalla spregiudicatezza. In cerca della felicità, si rischia di scoprire che la felicità si accompagna al degrado più completo. Una felicità conquistata al prezzo della perdita di qualsiasi vera felicità. Da giuliva promessa sposa di Paolo, la donna, tenuta sotto ricatto, rischia di costeggiare la prostituzione. «Siete marci! Tutta l’Italia è marcia!» grida la furiosa contessa Coceanu alle ultime battute. La contessa è il prodotto più evidente di tale degradazione, ma le sue grida gettano anche uno sguardo oscuro su un Paese appena rinato dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e rapidamente riallineato a nuove rapacità.
Sebbene mai menzionata nei dialoghi, Lucca è la città di provincia dove Soldati effettua buona parte delle riprese – e suona abbastanza strano sentire che i personaggi evocano Roma come orizzonte vicino e facilmente raggiungibile. Pare che nel racconto di Moravia si alludesse invece a Perugia. In ogni caso La provinciale evoca un orizzonte di vita dove le sorprese non sono all’ordine del giorno, e dove la stratificazione sociale si articola ancora su vecchi schemi duri a morire – si guarda ancora con ammirazione all’aristocrazia. Parallelamente alla maturazione di una figura femminile Soldati segue anche le orme di una presa di coscienza maschile, quella del marito Franco, interpretato da quel fantastico attore che fu Gabriele Ferzetti, qui giovanissimo, al quale forse non è stato ancora del tutto riconosciuto il suo contributo fondamentale a una delle fasi migliori della storia del cinema italiano. Oltre alla penetrante analisi di psicologie umane, Soldati tributa i suoi personaggi di una serie di riflessioni sugli atti mancati. Sono tutti personaggi fragili, quelli di La provinciale, tutto fuorché trionfanti vincitori, e soprattutto indeterminati, incapaci di incidere con forza sulla propria realtà e su quella di chi gli sta accanto. Anche nella sua veste smagliante di ripartenza dopo le macerie della guerra, il Novecento italiano si mostra insomma come terra di debolezze e inquietudini. La fragilità dell’uomo moderno, ben lontano dalle solide certezze ottocentesche.
Con scelta ben evidente Soldati si tiene lontano dalle coeve tendenze del cinema italiano. Lontano dal neorealismo, e ancor più alieno al neorealismo rosa, La provinciale è un dramma multiforme e cangiante che tra le righe però si rivela animato da una precisa idea della nuova Italia e dei suoi nuovi abitanti. Non vi è la minima traccia di un diretto impastarsi con la realtà contingente del tempo, ma vi è molto di discorso indiretto. E nella sua veste formale il film dà conto in modo vigoroso dello stato di salute della narrazione cinematografica, sottoponendola a un’intelligente messa in discussione, in cerca di nuove forme lontane dalla convenzione e da qualsiasi sovrastruttura. Un capolavoro veramente da riscoprire, come da riscoprire resta tutta la produzione cinematografica di Mario Soldati, fra gli autori più negletti del nostro cinema.
Massimiliano Schiavoni