Il progetto risale al 2019, ma parte in un certo senso da molto più lontano La plus précieuse des marchandises, tratto dall’omonimo romanzo dato alle stampe da Jean-Claude Grumberg e nuovo – non esattamente memorabile, ma nemmeno del tutto disastroso – esordio di Michel Hazanavicius nel cinema di animazione. Anche perché, vista la superficialità fiabesca – primo problema – con cui il regista francese maneggia l’olocausto come se fosse una mera ambientazione e giusto con un filo di delicatezza e serietà in più rispetto a come aveva usato gli zombie metacinematografici, il cinema muto, l’immaginario di (un finto) James Bond e, in maniera ancora più frivola (e pure più che un filo insultante), vita e opere di Jean-Luc Godard, è abbastanza evidente come il punto di questo film non sia mai stato riflettere su una delle pagine più buie della Storia mondiale (e forse, memori della retorica ricattatoria con cui l’autore aveva trattato la questione cecena con i ragazzini-soldato di The Search, potrebbe anche essere meglio così), ma molto più semplicemente trovare una vicenda “giusta” per poterla fare incarnare ai personaggi di carta, forse stipati da anni in un cassetto o forse reimmaginati ex-novo per l’occasione, creati dalla matita dello stesso regista francese. Quasi nessuno, del resto, era a conoscenza della passione parallela di Hazanavicius per il disegno, esercitata sin da bambino ma rigorosamente nel privato, con uno stile da graphic novel gotica fatto di volti imponenti e raggrinziti dai lineamenti duri e contrastati, delineati in poche linee rigide e marcate con tratti somatici impervi dai contorni molto spessi e quasi privi di chiaroscuri. Figure nette e decise che, se nel fumetto potrebbero anche avere la loro efficacia, e se tutto sommato in campo lungo e nelle silhouette di notte lungo i binari riescono a “reggere” anche nell’animazione, finiscono – secondo problema – per risultare troppo “calcate” e legnose per riuscire a farle muovere in maniera fluida e credibile quando animate, e al contempo (specialmente nelle bocche) troppo grezze e spigolose per risultare realmente espressive, destinate a perdere di potenza ogni volta che il campo si restringe verso i primi piani. Una scelta di character design che sembra perdersi da qualche parte fra la semplificazione (del tratto) e la ridondanza (di contorni e di dettagli poco funzionali), proprio come l’intero film sembra perdersi – terzo problema – fra l’apprezzabile minimalismo grafico e narrativo delle (non molte, ma qualcuna stavolta c’è) sequenze realmente ispirate, fatte di nevicate nella notte e di treni notturni che fendono il buio, e in generale di dialoghi ridotti all’osso in un lavoro che per larghi tratti avvicina i suoi alleli (ancora una volta, ma questa volta senza le ruffianerie furbette di The Artist) al Cinema Muto, e l’opposto e insistito accumulo di superflui flashback con cui ripercorrere (magari più volte) ogni singola fase di un passato già più che evidente fino all’ennesima e sterile ripetizione finale, oppure l’accatastarsi alla lunga pleonastico di variazioni sul tema de L’Urlo di Munch, o ancora il sottolineato pseudo-Impressionismo pittorico dei fondali, potenzialmente affascinanti eppure stilisticamente così distanti e separati dalle figure che li abitano.
È per questo che, nonostante qualche indiscutibile buon momento (le già citate silhouette in sottrazione di fronte ai treni notturni diretti alla morte, il volto del protagonista che quasi si sbriciola attraversato dalla corsa diurna di un altro treno, ma pure la nascita del rapporto paterno fra il taglialegna e la bambina, inizialmente rifiutata e poi amata e difesa fino a essere disposto a uccidere e se necessario perfino a morire per lei, e soprattutto la voce fuori campo del narratore registrata poco prima di morire e ultimissima apparizione di Jean-Louis Trintignant), è difficile riuscire a farsi piacere La plus précieuse des marchandises, cartone (principalmente, ma non esclusivamente) per adulti presentato come ultimo film del concorso di Cannes 77 giusto un paio di settimane prima di aprire Annecy – e su come sia stato messo nella vetrina principale, addirittura primo da Valzer con Bashir nel 2008, solo quello che è nettamente il lavoro meno interessante e meno riuscito all’interno del più che mai ricco bouquet d’animazione di questa edizione del Festival, quello che meno avrebbe meritato la competizione, si potrebbero aprire svariati capitoli… Un film con cui Hazanavicius si tiene sì a distanza di sicurezza dai potenziali baratri della retorica, e che come si diceva trova qua e là anche inaspettati sprazzi di cinema, specialmente quando l’oscurità degli esterni notte obbliga a un nuovo senso della misura, a togliere dettagli per sfruttare la potenza immaginifica delle ombre e dei tagli di luce. Ma anche un film che finisce lo stesso per traslare nel cinema animato buona parte dei limiti – concettuali, di sguardo, di ampollosità, per alcuni versi perfino etici – che da diversi anni è possibile riscontrare nella sua produzione live action. La stessa superficialità, lo stesso immaginario rivedibile, e al contempo la stessa tendenza alla didascalia, a mostrare e spiegare tutto senza mai lasciare nulla al fuori campo. Anche in una sorta di fiaba-non-fiaba (sulla cui opportunità si potrebbe discutere a parte, decidendo se tirare in ballo o meno La vita è bella di Benigni) di salvezza ma anche di inevitabile morte e amarezza a latere di un binario diretto ad Auschwitz, nerissima nei suoi risvolti narrativi e nella sua resa grafica che sembra quasi un rotoscopio e che invece è animazione tradizionale, finita ancora in bozza fra le sue mani ancora prima della pubblicazione e più o meno subito adattata e messa in produzione, salvo poi ingannare il lungo tempo di realizzazione girando e presentando nel frattempo l’ancor più mediocre Coupez!. È così che un potenziale controcampo umano di The Zone of Interest, dalla ‘normalità’, o per meglio dire dalla banalità del male, della famiglia nazista di Glazer al ‘miracolo’ di questa neonata trovata nella neve, vicino ai binari, lanciata dal treno in corsa sperando che potesse in qualche modo trovare un futuro, e capace di far esplodere l’amore nel cuore di chi decide di crescerla e di difenderla dal pregiudizio antisemita radicato nel villaggio, invoca a più riprese un rispettoso silenzio che non riesce a ricreare e a ribadire nelle immagini, di poche parole eppure appesantite dallo stile grafico inespressivo e dai movimenti scattosi, dalle troppe fasi dell’abbandono e del ritorno da solo del padre, dal sangue del taglialegna e dal (non?) riconoscersi nemmeno di fronte a quello scialle da preghiera che aveva fatto da fasciatoio. Poi, certo, c’è di peggio. Anche nella produzione di Michel Hazanavicius. Ma no, non avrebbe senso accontentarsi. Perché stavolta sarebbe bastato tutto sommato poco di più per non sprecare l’occasione.
Marco Romagna