LA PAZZA GIOIA (2016), di Paolo Virzì

C’è voluto del tempo perché Paolo Virzì riuscisse a liberarsi dall’ombra di se stesso, da quelle forme giovanilistiche e sfacciate del suo cinema degli esordi – ottimo, per carità, ma appunto giovanile –, giungendo ad una piena maturità autoriale. Dopo il successo ascendente dei primi film, La bella vita, Ferie d’agosto e soprattutto quello splendido Ovosodo capace di disegnare negli anni Novanta livornesi la parabola di un’intera generazione e dell’Italia tutta, il suo cinema sembrava purtroppo essersi accartocciato su forme che, con l’avanzare dei tempi e dell’età del regista, stavano ineluttabilmente perdendo freschezza, urgenza e puntualità. Da Baci e Abbracci a My name is Tanino, da Caterina va in città a N – Io e Napoleone, lo stesso regista toscano si è probabilmente reso conto di essersi seduto – forse spinto dalle produzioni che volevano replicarne il precedente successo senza concepire una vera e propria evoluzione – su una formula collaudata che stava diventando ormai ripetitiva. Una formula a metà fra il romanzo di formazione e la commedia all’italiana, carica di quella linguacciuta ironia amara e anche caustica che solo un toscano verace saprebbe concepire, una formula potenzialmente esplosiva di intrattenimento e critica sociale, che però stava perdendo buona parte della sua verve. Dal successivo Tutta la vita davanti in poi, Virzì ha quindi provato a scuotersi, a diventare più cupo, a crescere per davvero – visto anche l’appropinquarsi dei cinquant’anni – e a far crescere il suo cinema, e così sono arrivate fra fine Duemila e inizio anni Duemiladieci le tappe di La prima cosa bella, Tutti i santi giorni e Il capitale Umano. Fino a questo nuovo La pazza gioia, presentato a Cannes 2016 in Quinzaine des Réalizateurs, in cui finalmente lo scarto formale sembra essersi, dopo una serie di tentativi più o meno riusciti, definitivamente compiuto. La pazza gioia non è un film indispensabile, di certo non è un capolavoro, soffre qua e là di forzature narrative e situazioni non sempre credibili e funzionali – a partire dall’iniziale fuga in autobus per passare poi al ritrovamento da parte del proprietario, senza denuncia, della prima auto rubata, e più in generale a tutta la serie di furti di auto e gioielli compiuti dalle due ‘pazze’ -, ma è senza dubbio un film compiuto, ragionato, autoriale, che persegue e porta a termine i suoi obiettivi poggiandosi sulle due ottime protagoniste, la moglie del regista Micaela Ramazzotti e la procace Valeria Bruni Tedeschi, e su idee – di cinema e sociali – forti e chiare.

Prima di tutto, La pazza gioia è un volo radente, sincero e soprendentemente umano sui diritti puntualmente negati a chi soffre di disturbi mentali in Italia, su un sistema giudiziario e sanitario che preferisce punire piuttosto che capire, curare e reinserire nella società, sulle terapie che prevedono i sedativi e le corde ai polsi ben prima dei colloqui con le persone. Nei personaggi e nei luoghi messi in scena – una clinica accogliente fatta di medici e assistenti sociali comprensivi e davvero dediti alla riabilitazione dei propri pazienti condannati, contrapposta alla drammatica realtà degli OPG, sostanziale nuovo nome per i manicomi ormai illegali, a loro volta dichiarati da chiudere perché disumani e attualmente in fase di smantellamento –, Virzì inserisce tutte le sue istanze politiche e umane, fra stoccate al berlusconismo e il mare di complessità dietro a un gesto anche terribile, umanizzando i pazienti psichiatrici e riuscendo a dimostrare in un racconto allegorico come in realtà l’unico grande manicomio sia un’Italia fondata sulla conoscenza, sulle facoltà economiche e sull’inganno.
Beatrice, il personaggio interpretato da Valeria Bruni Tedeschi, è una borghese figlia di papà affetta da disturbi che la spingono a una verbosità illogica ed esagerata, a un egoismo pronto a sfociare in istinti cleptomani e ludopatia, a eccessi di protagonismo che la rendono sfacciatamente impicciona, all’incapacità di dare valore al denaro, tanto da aver dilapidato l’intero patrimonio di una famiglia ormai “talmente caduta in basso da dover affittare la villa al cinema italiano”. Forzista convinta (del resto è pazza), amica personale di Berlusconi, non di rado amante dei suoi avvocati, con il numero di George Clooney nella rubrica dell’iPhone e capace di telefonare alle 2 di notte al giudice che l’ha condannata per minacciarlo di morte, Beatrice nasconde in realtà dietro alla sua borghesia arrogante l’amara fragilità d’animo di una persona innamorata e sconfitta, di una decaduta, di un’ingannata. Il personaggio della Bruni Tedeschi, nei suoi eccessi, è in fondo una buona, affetta da disturbi psichiatrici che in realtà non sarebbero pericolosi, ma per amore nei confronti di un immobiliarista truffaldino (ci si riferirà mica al caso Ricucci?) ha firmato carte che l’hanno portata a una doppia condanna per bancarotta fraudolenta. Micaela Ramazzotti interpreta invece Donatella, depressa cronica, figlia di una situazione familiare ai limiti dell’insostenibile, convinta che il padre – ottima la sequenza del sommesso incontro dopo tanti anni -, squattrinato suonatore di pianobar, sia il vero autore di Senza Fine di Gino Paoli, un tempo cubista in un locale della Versilia, ingravidata e subito scaricata dal gestore del locale. La sua è una perfetta maschera tragica, ritenuta pericolosa e condannata per aver tentato l’omicidio-suicidio con in braccio il figlioletto di otto mesi, strappatole ben presto via dal tribunale e dato in adozione. Ma quello che il tribunale, così come l’opinione pubblica, non aveva minimamente calcolato, è la complessità delle situazioni che la spinsero a tale folle gesto, la serie di rifiuti ricevuti, la completa e drammatica solitudine, la povertà, la ricerca di una nuova vita. Il fatto che, mentre andavano giù sotto quel ponte a Viareggio, madre e figlio fossero felici come non mai. Il maggiore punto di forza del nuovo Virzì è quindi proprio la capacità di mettersi a sedere con chi sta dalla parte del torto, porsi apertamente dalla loro parte, nei loro occhi e nei loro gesti, parteggiando per una giustizia umana – o quantomeno divina, chissà – che possa superare i rigidi schematismi della legge. Una borghese, sedicente nobile, e una sottoproletaria, considerate allo stesso modo pazze e quindi recluse, vessate, represse, umiliate.

Le due donne si conoscono nella clinica psichiatrica, sviluppano una prima riluttante e poi tenera amicizia, mantengono fede agli istinti da coming of age che Virzì ha sempre avuto nella stesura nelle proprie sceneggiature e crescono insieme, pur nei limiti della loro malattia mentale, dimostrandosi personaggi ben più umani e di cuore rispetto ai “normali”. Fino a una completa messa in dubbio dei concetti stessi di “folle” e “sano”, categorie in realtà troppo schematiche, per quanto suffragate da diagnosi mediche, e senza dubbio classiste. La pazza gioia si nutre di sequenze che citano apertamente Thelma e Louise nella “fuga” in spider (ovviamente rubata) delle due ‘matte’, di momenti di evasione e di sospensione nei flashback, di sequenze ancestrali di ritorni all’OPG come in un lager per uomini e donne legati e sedati con tonnellate di Valium in attesa dell’elettrochoc, della profusione di sequenze girate con la macchina a mano e di montaggi alternati, di una memoria quantomeno tematica nei confronti di Qualcuno volò sul nido del cuculo. E nemmeno dimentica, il film di Virzì, di tirare numerose stoccate a una religione che tanto parla di amore e comprensione, ma non fa in definitiva nulla per combattere le storture legali e sociali del Belpaese. Risulta in questo senso assolutamente geniale l’idea di mettere in scena prima una messa cattolica alla quale i mostruosi personaggi femminili (diremmo quasi mareschiani, al di là del sesso) in cura nella clinica sono in coda – con tanto di Ave Maria tratta da La Buona Novella dell’inguaribile anarchico e agnostico Fabrizio De Andrè – per fare la Comunione solo a causa delle presunte doti amatorie del sacerdote africano, e poi una sorta di nuova comunione, stavolta rigorosamente atea e autogestita, nella quale le pazienti si somministrano a vicenda gli psicofarmaci brindando con il vino rubato dai sotterranei della villa.
Paolo Virzì confeziona con La pazza gioia una lettura forse imperfetta, ma non certo banale e di profonda sincerità, della situazione psichiatrica italiana, dà vita a due donne fragili e ancestrali, filma gli istanti sublimi di un incontro per troppo tempo rimandato senza mai lanciarsi in eccessi di sentimentalismo e sapendo rimanere ben lontano dal ricattatorio. Al suo fianco, come co-autrice della sceneggiatura, siede non più il fedele sodale Francesco Bruni, ma una Francesca Archibugi che senza dubbio traspare dalle tematiche e dalla trattazione, tenuta però intelligentemente e abilmente a bada nei suoi eccessi melensi dalla caustica ironia dolceamara tipica del regista toscano: il risultato è un punto di sintesi fra due filmografie apparentemente opposte che non possiamo ignorare. Non resta che tornare spontaneamente alla villa-clinica e alle amorevoli cure, non resta che cercare di guarire, finalmente libere e felici. In fondo, quello che La pazza gioia cerca è proprio il suo titolo, un momento di felicità nello squallore dell’esistenza, una ragione per esistere e per resistere, ancora e nonostante tutto, alle angherie della vita e della psiche. Paolo Virzì è tornato a firmare un film interessante, denso, finalmente maturo: l’eterno ragazzo è definitivamente cresciuto, è diventato uomo e cineasta completo. Uno che porta avanti un messaggio, uno che ama profondamente i propri personaggi, uno che non si nasconde nel portare avanti scelte coraggiose. Insomma, un Autore, che lo si voglia o meno.

Marco Romagna