LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI (1968), di George A. Romero
Al Trieste Science+Fiction Festival non si trovano solo occasioni per scoprire pianeti cinematografici distanti, (in?)ospitali e insospettabili, ma anche possibilità per ritornare in quei mondi in cui siamo già stati, molteplici e molteplici volte, per osservarli con una luce diversa e ritornare alle origini dell’amore per il cinema. E se il cinema è un’arte popolare è anche perché, banalmente, nel momento in cui qualcosa raggiunge un certo livello di culto, automaticamente i suoi insegnamenti diventano dogmatici. L’esordio di George A. Romero, l’anti-capitalista maestro dello zombi-movie, gigante buono che ci ha tristemente abbandonato quest’anno, fa parte di questa logica: niente fu più lo stesso, dopo La notte dei morti viventi. E sono pochi i film dell’orrore di quel periodo che possono vantarsi di ciò; si può pensare a L’esorcista (1973) di Friedkin per il sottogenere dell’esorcismo, a Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper o a Psycho (1963) di Hitchcock per i serial killer, a Rosemary’s Baby (1968) di Polanski per il satanismo (e, volendo, anche per le derive oscure e terribili della gravidanza, recentemente sfruttate nel cruentissimo horror francese À l’intérieur, 2007), e anche, se vogliamo, ai lavori artigianali di Roger Corman oltremare e dei nostri Bava, Fulci e Argento, ma pure a The Wicker Man (1973) di Robin Hardy. Eppure, per quanto tra questi titoli probabilmente ce ne siano anche di più influenti sull’immaginario collettivo, nessuno quanto La notte dei morti viventi è stato capace di creare un vero e proprio sentiero ideologico ed estetico per un’intera corrente di variazioni sul sottogenere cinematografico degli zombies. Già parlando di Ho camminato con uno zombi (1943), uno dei capolavori del trio di horror a cui ha lavorato la coppia regista-produttore costituita da Tourneur con Val Lewton, abbiamo cercato di trattare l’origine del genere e l’influenza dell’approccio impressionista ed europeo di Tourneur sulla costruzione della tensione mediante un approccio fotografico e scenografico mistico e terribile, ma il caso di Romero, più che concernere un’origine di un genere o una grande idea stilistica, si avvicina più esplicitamente a una costruzione piuttosto che a uno spunto vero e proprio. Insomma, riassumendo: Ho camminato con uno zombi crea gli zombies cinematografici nella maniera migliore immaginabile, mentre La notte dei morti viventi ne consolida il significato più denso, iniziando un più specifico sottogenere psicologicamente e politicamente coerente – almeno per quanto riguarda l’idea di zombie romeriana, che pochi autori odierni hanno mantenuto viva (o, perlomeno, non-morta…) nelle varie metamorfosi subìte dal genere attraverso gli anni; e tra questi, quello più convincente è stato certamente Edgar Wright con la sua magnifica parodia Shaun of the Dead (2004).
La notte dei morti viventi arriva prima dell’Alba, del Giorno, della Terra e del Diario, in un franchise autoriale curato da Romero in tutti i suoi capitoli comprendendo un lasso di tempo di oltre 40 anni. Tuttavia, per quanto L’alba dei morti viventi, noto in italiano come Zombi a causa del ri-montaggio di Dario Argento che portò a due sequel (Zombi 2 di Fulci, che torna alle origini haitiane dello “zombi” come faceva Tourneur, e Zombi 3, ahinoi, pessimamente diretto da Bruno Mattei e Claudio Fragasso), sia tra i film più iconici del genere, probabilmente nessuno tra i film di Romero ha lo stesso fascino espressivo della Notte. In un bianco e nero che dipinge gli interni con lo stesso senso di claustrofobia che caratterizza Suspense (1961) di Clayton, Romero non lavora solo sulle luci e sulle ombre ma anche sull’efficacia estrema dell’oggetto cinematografico del non-morto, la trasformazione del corpo che passa dalla vita alla morte fino alla zombificazione o alla marcescenza della decomposizione. Più che fare paura nel senso odierno dell’effett(acci)o immediato, La notte dei morti viventi inquieta nel profondo, spaventa perché riporta alle paure più implicite dell’invasione delle pareti intime. Tutto parte dalla povera Barbra, andata col fratello Johnny a porre fiori sulla tomba del padre, per poi trovare al cimitero uno zombi che uccide il fratello; l’origine e la conclusione della storia di Barbra convergono nella stessa necessità di affetto, nello stesso desiderio di rispecchiarsi nel rapporto familiare, nella stessa debolezza, poiché la donna finisce per rimanere uccisa proprio dal riconoscimento del cambiamento di Johnny, diventato “nemico”, una volta abbandonato lo status di essere umano. Le letture politiche applicabili sono svariate, passando dall’allegoria della Guerra Fredda a un più plausibile e universale commento sui giochi di potere interni che si manifestano in un clima di terrore, portando l’uomo (e il capitalismo da lui incarnato e portato avanti) a essere “il vero mostro”. È una cosa che col tempo è diventata un cliché del cinema dell’orrore, ma che in Romero non è un semplice attestato di misantropia senz’arte né parte, bensì ha più il ruolo di una destrutturazione della regola fantascientifica del nemico estraneo. Gli esseri non-morti che provengono da fuori appartengono alla razza umana ma hanno perso la loro umanità, sono puro istinto, e in quanto tali rappresentano sia l’ignoto verso il quale l’odio umano si esprime sia la violenza più greve dell’uomo stesso. Il conflitto, presto, non è più solo tra gli uomini che si trovano dentro la casa e gli zombies fuori, ma anche nelle interrelazioni tra gli uomini dentro la casa. Tra essi, il più intelligente, vero e proprio protagonista del film, è Ben, interpretato da Duane Jones, uno stolido esempio di eroe anticonvenzionale, “braccio d’azione” il cui raziocinio è l’unica arma possibile contro l’invasione al di fuori della casa. I suoi movimenti meccanici e calcolati si sovrappongono ai più goffi e stolti tentativi dei suoi compagni d’avventura, sempre indecisi, sempre volti verso un’autodistruzione nella sintassi dell’intreccio. La malattia colpisce l’interiorità del luogo-film, del luogo-umanità, lo zombi diventa riflesso dello sminuimento delle capacità dell’uomo di fronte all’oscurità. Romero zooma e si ritrae, serra il montaggio sempre più, rinnova il linguaggio del cinema horrorifico sovrapponendo la fissità tesa dei classici crescendo di tensione con una crudele prassi che va per accumulo, estremizzando, distruggendo, riscrivendo le origini dello zombi allontanandole dalla tradizione haitiana e avvicinandosi a spiegazioni pseudo-scientifiche, oltre l’uomo, oltre il tempo.
La cosa probabilmente più importante del film, tuttavia, è il suo crudelissimo finale. Con tutti morti all’interno della casa tranne Ben, l’arrivo dell’esercito dovrebbe rappresentare una speranza assoluta per la risoluzione del dramma. Gli zombies vengono prontamente fucilati uno per uno, cadono a terra, col cranio fracassato dai proiettili, sconfitti. Ben si sente libero e fuoriesce dalla casa con uno scatto veloce, distante dalla lentezza autistica degli zombies romeriani, ma viene confuso per un morto vivente ugualmente, finendo anch’egli sotto una raffica di pallottole. Romero ha sempre detto che la scelta di Duane Jones per il ruolo di Ben non era caratterizzata dal suo essere afroamericano, bensì semplicemente dalla bravura dell’attore, ma è difficile non pensare a una scelta narrativa anti-razzista nel confrontarsi con la violenza della scena – e non ci riferiamo soltanto alla morte di Ben, ma anche al trattamento che subisce immediatamente dopo il suo cadavere, appeso come una carcassa di maiale, portando il realismo della violenza nella direzione di una violenza del realismo, chiedendo allo spettatore chi sia il vero carnefice, quale vera colpa abbiano gli zombies. La carne tormentata o martirizzata non appartiene più a figure palesemente frutto della fantasia e dell’ingegno dell’autore, bensì a figure reali, distrutte non solo nell’anima ma anche nel corpo dall’ingiustizia crudele di un sistema politico privo di parametri legislativi, privo di senso del riconoscimento dell’umanità. Ben non è solo un “negro”, è soprattutto, a prescindere dal colore della sua pelle, una vittima nata per essere vittima, per appartenere a una circoscrizione sadica degli intenti in cui nessuno può essere salvato. Il corpo martoriato di Ben si muove per scatti e foto e non più a 24 fotogrammi al secondo, come in una veloce e tragica ‘opus’ cine-fotografica à la Chris Marker, ma replica anche il documentarismo espressivo del sangue bestiale di Franju, re-immaginando i linciaggi dell’epoca in cui erano in vigore le cosiddette leggi Jim Crow, emanate da fine ‘800 fino a pochi anni prima dello spartiacque culturale del ’68 secondo la terrificante logica del “Separated but Equal”. L’orrore più grave non è quello che colpisce l’uomo, ma quello che l’uomo può (tentare di) manifestare, fino alla concretizzazione più definita e drastica degli stessi intenti. In tutto questo Romero, adesso, non c’è più. Che abbia davvero abbandonato questa vita definitivamente o che si sia riunito alle creature di cui ha cantato le avventure per tutta la sua carriera, non lo possiamo davvero sapere. Ma possiamo sapere che nel cuore del suo cinema, per quanto gli uomini possano essere dei grandi bastardi e possano costringere i loro ‘compagni’ (di avventure o di specie) in giochi crudeli privi di speranza, l’uomo rimane. Forse non nel senso antropocentrico del termine, o nemmeno in un senso di estrema solidarietà, bensì nella dimensione nella quale, per superare l’orrore che creiamo, è necessario contrastarlo. Con lo sguardo, o con le immagini, le nostre armi più temibili.
Nicola Settis