Porta sempre a discutere un autore come Albert Serra, dai suoi cultori della prima ora fino agli amanti delle sue ultime opere. Fa discutere perché profondamente autore o artista (come lui pare continuamente definirsi). Il catalano continua così nella sua personalissima agiografia di grandi personaggi (e soprattutto di momenti per loro fondamentali) che hanno attraversato la Storia. Dopo lo straordinario Chisciotte e il meno convincente, almeno per chi scrive, Casanova, questo Louis XIV raffigurato splendidamente da Jean Pierre Léaud è l’ultimo gigante messo allo specchio, un personaggio che segna realmente la fine di un’era, messo ancora una volta a nudo di fronte a ciò che rende gli uomini tutti uguali: la morte. La mort de Louis XIV è un viaggio all’interno del destino capriccioso del sovrano, una lunga esposizione dei suoi ultimi giorni (di regno e vita) in cui sperimentare realmente l’impotenza al cospetto del reale, lo scivolare di un esistenza nella morte, lo sgretolarsi di un potere che nulla può contro il tempo, e forse nemmeno con lo spazio. Serra in tutto questo pare obbligarci a testimoniare gli ultimi giorni del corpo (quasi già reliquia) del più potente individuo nel 17° secolo in Francia, quasi fossimo assistendo ad una sua esecuzione da parte del destino stesso. Il set della morte, un potentissimo spettacolo voyeuristico e baracco per i membri della corte (come per noi), che si limitano ad osservare, pietrificati e completamente astratti, trasformando la tragedia in una forma macabra di intrattenimento. L’ennesima radiografia di una conquista dell’inutile, dove il monarca assolutista, supremo rappresentante del potere terreno e di opulenza, è costretto a combattere l’ultima battaglia, quella che nessun mortale ha mai superato, quella con la morte.
L’ultimo film di Serra appare un dramma da camera strutturato sulle famose memorie di Saint-Simon e le reminiscenze meno celebri del marchese de Dangeau, una messa in scena funzionale al simulacro Louis, uno scavalcamento continuo di impressioni asteniche sulla caducità dell’essere e del potere. La presenza di Léaud non è solo importante, forse nemmeno determinante, ma totalmente decisiva. Senza dubbio a livello di recitazione, perché tutto il film è retto da questa esposizione continua di fisicità, dall’impossibilità del movimento agli svelamenti della malattia. Ma la presenza dell’attore/anima feticcio di Truffaut è altresì importante come testimonianza simbolica delle epoche che si fondono e che vanno a scomparire; il volto più codificato della nouvelle vague impersona (e dà letteralmente vita) al simbolo di un’età storica di cui Louis XIV fu senza dubbio l’apogeo, se non l’immagine (figurina) più complessa e storicizzata, il segno del confine di un’Europa che da lì a poco conobbe la rivolta (dalla Rivoluzione Francese, alla Resistenza dei compatrioti catalani con l’ultima cariatide/carcassa del franchismo). Tutto questo cortocircuito è reso ancora più esemplare dal decoro. Classico e maestoso, solenne e rigoroso, in cui il tempo si dilata e si sposta al montaggio, esasperando sequenze che scorrono senza soluzione di continuità in un’altra, come i confini della camera da letto del re fotografati a lume di candela nei profondissimi chiaroscuri da Jonathan Ricquebourg, sull’eco dell’allora pittore di corte Georges de la Tour (o forse addirittura di Rembrandt). Il catalano Albert Serra porta quindi a Cannes, apogeo della grandeur francese, la morte del più grande sovrano francese interpretata dal più grande simbolo del cinema francese: un film scomodo, affilato, che è stato coraggioso prendere in selezione ufficiale ma al contempo è stato come ostracizzato dallo stesso Festival che lo ha selezionato e reso quasi invisibile da una programmazione che lo ha sempre messo contro i film in concorso. E in un cinema di paradossi, forse è giusto, o quantomeno necessario, che siano paradossali anche le proiezioni.
Pare palese l’intento (quasi macabro) dell’ultimo Serra autore/artista (uomo?) di fotografare continuamente il (dis)farsi della morte, quasi come se la rappresentazione ci portasse davanti ad un’autopsia metafisica in cui il fluire della vita va a spegnersi con la durata dell’opera. Cinema che continua imperterrito a fregarsene della scollatura continua della nostra società – data probabilmente persa in maniera definitiva – per (non) interrogarsi sul senso di un passato con cui giocare e reinventare, con memorie da modulare con il sarcasmo nichilista forse necessario in questi tempi. Lontano da Sokurov, da Straub e ancor di più da Rossellini, il dialogo/scontro di Serra con la storia trasuda continuamente sfida anarchica e profanazione subdola, che può affascinare indubbiamente ma anche respingere. La nostra è un’epoca forse già decomposta, come quella che attraversa gli occhi di Leaud, annebbiati e imperscrutabili, tenuti in vita quasi solo per essere derisi nella loro decomposizione. Forse distante dalla libertà creativa (e ancora più iconoclasta) di Honor de Cavalleria, ma più simbolico di Història de la meva mort, questo La Mort de Louis XIV diventa una meditazione/contemplazione sulla mortalità e sulla religione, sulla scienza e sul mito. Con la morte del corpo, anche quella dell’anima e dunque l’annichilimento completo e distruttivo della coscienza di questi simboli. Non rimane nulla, se non quella corte che simpaticamente (auto)invita a far meglio, la prossima volta. Si, perché la Storia ritorna, e ci sarà sempre un re da far spogliare, magari davanti alla macchina da presa.
Erik Negro