LA MOGLIE DI FRANKENSTEIN (1935), di James Whale
Il primo, iconico Frankenstein di Whale è stata una delle migliori ri-scoperte del TFF, nonostante l’assenza quasi totale di proiezioni in pellicola che rimane una scelta abbastanza triste; tuttavia rimarrebbe un’esperienza incompleta affrontare l’opera di Whale senza contemplare questo magnifico sequel, che precede Il figlio di Frankenstein (che però è di Rowland Lee) nella trilogia con Boris Karloff degli anni ’30. Se difatti il primo Frankenstein va riscoperto e rivisto per comprendere pienamente un’iconografia e un’idea di produzione che sono tanto distanti dal presente quanto ancora affascinantissime, La moglie di Frankenstein è più classico nella sua grandezza, nel senso che il motivo per cui la visione è da riscoprire è analogo a quello per cui tendenzialmente ritorniamo ad analizzare la Golden Age hollywoodiana, ovvero, banalmente (per modo di dire…), la ricchezza delle trovate all’interno di un microcosmo narrativo, cinematografico complesso. Già l’inizio è illuminante, in un modo che a suo modo molti definirebbero volgare e irrispettoso, ma che con il senno di poi della visione nel 2019 guadagna solo più fascino: la storia del film è difatti affidata alle labbra di Mary Shelley, nonostante sia prevalentemente una presa in giro del Frankenstein originale (e nonostante la parte di trama, nel romanzo, legata all’ipotetica moglie di Frankenstein abbia tutt’altro esito e sia precedente nello svolgersi del racconto). Sia chiaro, lo scopo del film non è quello di infangare o sfottere lo scritto originale, anzi, sembra quasi che venga applicato uno sguardo esterno, quello dell’eterno frustrato Whale (che non voleva girare questo sequel) che si lega alla Shelley per immaginare un continuo specificatamente per il film del ’31, che finiva col Dr. Frankenstein ancora in vita a differenza che nel romanzo. Ciò crea un distacco dalla materia concettuale di Frankenstein che apre alla possibilità di ridiscuterne le coordinate in un modo innovativo e separato dalla matrice letteraria di partenza. È qui, però, che giunge la satira: La moglie di Frankenstein è perlopiù una commedia grottesca, in cui il mostro di Boris Karloff è un bambinone autistico e violento, molteplici scene ritraggono brutalità e morte con ritmi e modalità di messinscena abbastanza ridicole, e svariati sono i siparietti in cui i comprimari interagiscono recitando sopra le righe, come commentando l’azione e minimizzandone l’impatto sulla storia. Anche i momenti più drammatici appaiono come febbrili esagerazioni di una narrazione regolare e programmatica appartenente al genere. Il prologo, che vede Mary Shelley cominciare a raccontare a voce la storia de La moglie di Frankenstein al marito Percy e a George Byron in una villa a Ginevra, fa da cornice già idealizzata in modo grottesco a qualcosa che si propone perlopiù come una cartolina o un cartonato dell’estetica del testo della Shelley più che della sua costruzione.
Dopo la scoperta di un Henry Frankenstein sopravvissuto, anche il mostro è redivivo. Si comincia esattamente da dove il film precedente ci ha lasciato, ma con la consapevolezza fiabesca che trattasi di una finzione: e già così, parte dell’orrore è annullato o perlomeno accantonato. Boris Karloff prima uccide dei poveri innocenti, poi si aggira per i campi, in una situazione bucolica, non si riconosce nel suo riflesso, e cerca di interagire con il genere umano, che lo allontana e lo teme. Già questa è un’immagine che, pur nell’ambito dell’eccesso e, se si vuole, nel ridicolo, cattura l’operazione di La moglie di Frankenstein: spostare l’umanità, concentrandola nel mostro iconico, ma estrapolandolo dal contesto in cui il mostro è esso stesso, ovvero simbolo del mostro. È da questo film che nascono molte delle ispirazioni per le gag di Frankenstein Jr di Mel Brooks, a partire dall’eccentrico antagonista Dr. Pretorius il cui nome è spesso accompagnato da drammatici effetti sonori diegetici, come poi nel celeberrimo sketch di Frau Blücher. Ma tra le cose da cui Brooks ha attinto, quella che è più imponente e interessante nel film di Whale è l’amicizia tra il mostro e l’eremita cieco nella baita nel bosco. Già la scena ne La moglie di Frankenstein è abbastanza divertente, e la versione parodistica in Frankenstein Jr è invero solo una volgarizzazione di quello che è altrimenti, nonostante appunto un certo umorismo, il momento più commovente del film di Whale. L’unione che si crea tra il mostro e il cieco è sancita dal riconoscimento della bellezza, con il mostro che viene attratto nella baita dal suono del violino dell’eremita che suona Ave Maria; ma presto, a unirli davvero è la consapevolezza delle reciproche disabilità, il non-vedere e il non-parlare, e dalla decisione di aiutarsi a vicenda. Sono dei momenti molto teneri e molto umani. Tra accensioni di sigari e uno dei dialoghi brevi più brillanti della storia del cinema («Amo i morti, odio i vivi» dice il mostro, il cieco replica «Sei molto perspicace per la tua età»), sembra quasi di vedere in questi momenti una versione primordiale di un procedimento hollywoodiano oramai abbastanza consueto, appunto l’umanizzazione dell’icona “maligna” col pretesto del sequel (un altro esempio celebre, molto più tardo, è nei seguiti di Terminator per la gestione del personaggio di Schwarzenegger). Come nel primo Frankenstein inoltre la costruzione registica costituisce un immaginario e in generale una visione d’insieme sull’essenza dell’oscurità della storia che supera per complessità e intensità la sceneggiatura, che subì censure a causa dei costanti paragoni tra l’opera di Frankenstein e quella di Dio – necessari per destrutturare filosoficamente il senso ultimo della storia.
Perché sì, in fondo il romanzo Frankenstein è la storia di un uomo che tenta di operare come Dio, creando vita, e fallisce. Se il film del 1931 è il racconto diretto e piatto del suo fallimento, La moglie di Frankenstein finisce per esserne più che altro una specie di corollario. Alla fine la storia funziona, e le trovate visive e narrative creano un senso di intrattenimento che ha dell’impeccabile, ma nulla è aggiunto a Mary Shelley; Henry Frankenstein pseudo-redento è un personaggio piatto e tutto il suo male è reso mostruoso e folle all’interno del personaggio di Pretorius, che è comunque un ‘villain’ emblematico. Alla fine, molte delle cose migliori del film sono gratuite se rimaniamo in un’ottica di coerenza o importanza narrativa o concettuale, ma sono tra le cose migliori del film perché il film non si propone come una dichiarazione d’intenti autoriale, o filosofica, ma come gioco. È un grande, grandissimo gioco. Basterebbe la sequenza in cui Pretorius mostra a Henry Frankenstein i suoi esperimenti con la creazione di vite umane, con dei cilindri di vetro che contengono piccoli esseri umani; effetti speciali analoghi, nei film degli anni ’80, sono egualmente efficaci. È un film vitale ed estatico e anche profondamente ironico, considerando che la moglie di Frankenstein appare solo nel finale ed è interpretata dalla stessa attrice che interpreta Mary Shelley all’inizio. È un grande marchingegno artistico che fa da contorno epico a simboli già prescritti. Forse non fa paura nel senso classico e stretto a cui siamo abituati, ma è un grande capolavoro del gotico, perché ne caratterizza i dogmi, e pure con un’isteria e un divertimento innaturali. Anche in questo caso, è un tipo di film che non si fa più, ci prendiamo troppo sul serio e ormai quando non ci prendiamo sul serio entriamo nell’ambito della parodia in modo troppo eccessivo e usciamo fuori dai canoni del genere. Sarà che i generi sono ormai troppo canonizzati, troppo chiusi. E sarà che l’approccio produttivo di un James Whale nel panorama odierno è difficile da riscontrare. Ma ha poco senso essere nostalgici di qualcosa che non abbiamo vissuto, soprattutto se possiamo ancora immergerci in questo mondo…
Nicola Settis