LA LLORONA (2019), di Jayro Bustamante
La Llorona, insignito del premio come miglior film della sezione Giornate degli Autori alla 76esima edizione della Mostra di Venezia, parte appunto dalla ‘donna piangente’ della cultura latinoamericana, la ‘llorona’ attorno alla quale sono già stati costruiti film su film, anche con lo stesso titolo, dagli anni ’30 fino a quest’anno, in cui è uscito in sala La Llorona – Le lacrime del male di Michael Chaves, uno dei film dell’orrore più bistrattati da pubblico e critica di questo 2019. La Llorona si manifesta col suo pianto, si fa sentire da chi è vicino a lei, lei stessa è una maledizione di dolore, una manifestazione di lutto e di destino inesorabile; la sua leggenda non è dissimile da quella di Medea, dopo essere stata abbandonata dal marito la Llorona ha annegato i suoi due figlioletti infanti in una crisi sofferente di rabbia, la differenza principale sta nel fatto che il fantasma della madre continuerà a viaggiare in lungo e in largo per il mondo alla ricerca dei loro corpi, e non avrà pace finché non li troverà, invadendo il mondo degli uomini. La Llorona è un orrore irreale, metafisico, appartenente alla tradizione orale. Jayro Bustamante parte da questo presupposto per mettere in scena il dramma di questo personaggio sotto un’aura totalmente allegorica, passando per il genere del film dell’orrore non tanto per seguirne i dogmi, apparentemente, quanto per sfruttarne l’impatto emotivo, decidendo di raccontare qualcos’altro, un orrore reale, fisico, integrato nella Storia del suo paese, il Guatemala. Durante la guerra civile, che durò dagli anni ’60 fino quasi alla fine del XX secolo, l’Ejercito Nacional de Guatemala, sotto il comando del dittatore Efraín Ríos Montt del fronte repubblicano guatematelco, si è reso colpevole del genocidio degli indigeni Maya detti Ixil, la cui popolazione è stata sottoposta a una decimazione brutale, tra stupri sistematici e infanticidi di massa.
L’operazione del film di Bustamante non è chiara nella sua completezza dai suoi primi attimi, e anzi la prima inquadratura rimane ambigua e misteriosa anche a visione conclusa, ma è palese come l’incrocio tra violenza astratta e concretissima sia atto a voler raccontare il trasporto emotivo inspiegabile, oltre-umano, che c’è nella violenza di cui l’uomo è capace. Bustamante racconta tuttavia il dolore non dal punto di vista del popolo, ma da quello di un generale fittizio dell’esercito, Enrique Monteverde, che all’inizio del film è trovato colpevole di crimini di guerra, di buona parte del genocidio. Per una grave e vaga malattia di cuore, viene portato a casa e chiuso dentro con la famiglia, mentre appena fuori dai cancelli una folla fa di tutto per tormentarlo. Nonostante il film si concentri principalmente sulla dialettica dei problemi della famiglia, trattati con la leggerezza di un dramma piccolo borghese con sempre in agguato il fantasma dei crimini commessi da Enrique, le martellanti proteste del popolo che lancia sassi, intona canzoni tradizionali e urla nomi di Ixil defunti fanno da cornice sonora all’intero film creando una tensione irrespirabile, e reale. Monteverde è certamente colpevole, ma la sua famiglia è altrettanto sicura che lui non lo sia, e nel difenderlo finisce vittima di una tensione che si esprime sempre più verso di loro, contro di loro, senza dar spazio all’individuo e creando solo un desiderio di dolore, una tendenza alla paura. Per buona parte del film, prevalentemente nella prima metà che è più sociopolitica e realistica piuttosto che nella seconda più metaforica e spaventosa, la maggior parte delle inquadrature di Bustamante partono da un dettaglio o da un primo piano e poi carrellano all’indietro per svelare l’ambiente, o viceversa partono da un totale e poi si spostano in avanti fino a concentrarsi su uno, due volti. È come se costantemente la nostra attenzione venisse spostata in modo programmatico e preciso, crediamo che si tratti di un problema individuale e invece è totale. L’orrore si crea nel momento in cui vediamo il dettaglio o nel momento in cui realizziamo che quel dettaglio fa parte di una totalità, oppure si manifesta quando ci concentriamo sullo sguardo nella folla, l’unico sguardo rivolto verso la macchina da presa, la sua presa di coscienza, il suo momento d’illuminazione – che diviene terrore. Monteverde è ossessionato dal suono del pianto sin dall’inizio, ma a essere spaventoso più che il pianto è lui che, seguendolo, si ritrova a compiere involontariamente azioni sempre più pericolose, nel tentare di contrastare una forza immateriale che solo lui percepisce, che potrebbe, o dovrebbe, essere solo un incubo. Viene accusato di sonnambulismo, poi di perversione, infine di completa follia. Nel frattempo, i sogni di sua moglie si allineano con il passato di una donna che ha una storia non dissimile da quella della Llorona, una donna Ixil i cui figli sono stati uccisi dall’esercito.
L’allegoria si completa, poi, con l’inserimento, prima tra la folla fuori casa e poi nella casa con il ruolo di casalinga, di Alma, una sorta di versione fisica del demone, che penetra nella privacy di Monteverde e della sua famiglia senza lo scopo di creare violenza, ma solo confusione, e progressivamente un senso di chiarezza, essendo ella stessa un fantasma promemoria delle violenze compiute dal generale. La casa verrà invasa dai fantasmi dei morti, e la giustizia non può che giungere per mano di chi ha raggiunto una consapevolezza. La Llorona infesta le menti per portare a un compimento karmico di un processo che gli umani non sono riusciti a concludere correttamente. E, per fare ciò, maledice gli uomini – ma con un suo, proprio, senso di giustizia. È una lettura suggestiva del mito, e soprattutto La Llorona è, nella sua profonda struttura politica, un attestato rappresentativo di un paese. Ma a tratti sembra davvero semplicistico e superficiale: Monteverde non è un antagonista insopportabile quanto un pietoso deuteragonista disumano, la sua famiglia è tratteggiata con modalità narrative approssimative e le loro motivazioni spesso cambiano con una fluidità innaturale, l’inserimento nell’intreccio dei servitori ‘indios’ alla fine è superfluo nell’ottica del racconto metafisico (è più un pretesto per esplicitare l’aspetto fiabesco in anticipo rispetto alla sua manifestazione in scena che un’esplicitazione di una dualità di punto di vista politico), gli pseudo-drammi generazionali al femminile sui rapporti nonna-madre-figlia sono chiusi in se stessi e privi di approfondimento, e la prolissità registica di alcune scene conferisce a esse una grande atmosfera che tuttavia lascia poco spazio all’approfondimento emotivo o caratteriale. Diventa un film di fantasmi senza esseri umani, o quasi – e le ultime inquadrature nei momenti di maggiore tensione sono troppo tradizionali e descrittive. Non è un film horror, se non su carta, è un film politico che sfrutta l’horror per raccontarsi, ma spesse volte tenta di rientrare nei canoni del genere, soprattutto nel finale cliffhanger, sforzandosi di non risultare forzato e didascalico, ma finendo per creare un evidente scarto tra intento e riuscita, che non vorremmo che ci fosse vista la nobiltà formale e storica da cui l’operazione parte. È un film che certamente merita la visione, non tanto per gli appassionati del cinema dell’orrore, quanto per chi cerca visioni al limite, in cui il “world cinema” trova una modalità d’incastro con il linguaggio usuale del cinema d’autore e d’intrattenimento. Ma è anche dannatamente parziale.
Nicola Settis