La leggenda di Narayama di Keisuke Kinoshita è il Giappone, è il cinema classico anni ’50 nipponico non meno né più di un Viaggio a Tokyo (1953) o di un I racconti della luna pallida d’agosto (1953). Questo è perché Kinoshita, utilizzando un formato come il 2.35:1 in un paese tendenzialmente connesso al 4:3 degli spazi quadrati di Ozu, con questo film, tra i suoi più celebri, ha composto una delle note più dolorose del cinema jidaigeki, un monumento teatrale alla favolistica tradizionale dello spiritualismo asiatico e un film sulla vecchiaia e sulla tradizione, e sugli eterni fantasmi che le circondano. La cosa che salta più immediatamente all’occhio sin dall’inizio del film è un uso del colore (Fujicolor) non dissimile da quello dei Fauves, applicando i colori ai personaggi e alle scenografie in maniera puramente emotiva, impulsiva, animalesca. Il set è composto principalmente da esterni ricostruiti interamente in interni, con la macchina da presa che entra ed esce con fluidità dalle case e dietro gli alberi, in movimenti quasi circolari; le luci sui fondali si contraddicono rispetto a quelle sugli alberi e anche a quelle dentro le case, o nei volti dei personaggi. Da questo punto di vista è essenziale la scena di “tensione” dedicata al ladro, scoperto dagli abitanti del villaggio e perseguitato con violenza vendicativa, con il colore che cambia in continuazione, tra un tramonto roseo e le fiamme cremisi, tra un viola inquietante dall’interno delle finestre delle capanne e il verde scuro che riempie la notte.
Il film tratta del dramma interno in una famiglia di contadini: il padre di famiglia, Tatsuhei, da poco vedovo, deve risposarsi, mentre il suo figlio maggiore si innamora di una ragazza più volgare; nel frattempo, la madre di Tatsuhei, Orin, è nelle fasi conclusive della sua vita ed è destinata, come gli altri anziani del villaggio, a seguire il rituale di andare a morire in cima al monte Narayama. Il film si apre sulle note del koto, lo strumento tradizionale le cui note hanno accompagnato sostanzialmente tutto il Medioevo giapponese nella sua deriva cinematografica, con una voce che introduce il film con la solennità di un’ouverture teatrale, dimostrando sin da subito, per i colori e i ritmi, un legame strettissimo con il teatro kabuki: l’impianto teatrale della regia, la plasticosità degli sfondi (che in una decina di momenti sublimi si abbassa, scomparendo e lasciando lo spazio ad un nuovo sipario, ad un nuovo sfondo) e soprattutto la voce dolente che narra l’intera storia seguendo il koto, a volte con fare ingenuamente didascalico e a volte interrompendosi a causa del dialogo più violento tra i personaggi. A livello formale, inoltre, il montaggio spesso, tra campi lunghi e macrosequenze, riserva brevissime parentesi a primissimi piani istantanei e crudeli: Ejzenštejn in Forma e tecnica del film e lezioni di regia dice «il principio del montaggio può essere considerato come l’anima della cultura figurativa giapponese. La scrittura. Poiché la scrittura giapponese è in primo luogo figuratività. Il geroglifico. […] Sta di fatto che la copulazione (forse sarebbe meglio dire combinazione) di due geroglifici della serie più semplice non dev’essere considerata come la loro somma, ma come il loro prodotto, e cioè come una grandezza d’altra dimensione e altro grado; se ciascuno corrisponde separatamente a un oggetto, a un fatto, la loro comparazione corrisponde a un concetto. Con la combinazione di due «figurabili» si riesce a delineare ciò che graficamente figurabile non è. […] Ma questo è montaggio! Sì. È esattamente quello che facciamo nel cinema comparando inquadrature figurative neutrali e univoche da un punto di vista semantico, entro contesti e serie costruite sulla base d’un significato». E ciò è dimostrato perfettamente da un breve stacco all’inizio del film, quando Orin riceve una visita da un messaggero e, prima ancora che la si veda a figura intera, si ha un breve flash-forward di lei che morde la pietra per poter perdere i denti; è, infatti, un disonore avere tutti e 33 i denti ad una certa età, e per poter salire sul Narayama, vera e propria allegoria di un rituale di accettazione della morte, lei si sente in obbligo di farsi del male, per essere accolta dagli Dei. Questo breve, violento primissimo piano dimostra un’istantaneità del cinema giapponese che a volte si dimentica, tra i lenti dialoghi religiosi e la contemplazione dello stile di Ozu, e che fu la cosa più interessante di un’altra visione del Cinema Ritrovato, due anni fa: Il papavero (1935) di Kenji Mizoguchi.
Il dramma familiare procede con fare rilassato ma cruento, con quadratezza narrativa ma follia surreale cromatica, Espressionismo, prepotenti filtri rossi nei momenti di tensione e rami di alberi che fungono da sipario. Ciò fino alla parte finale del film, una lenta salita sui monti che sembra più una frenetica corsa all’Inferno: Narayama è un po’ come l’Ade, il rituale è un po’ come l’obbligo di Orfeo di non voltarsi a vedere Euridice. La morte viene lentamente accettata mentre la natura plastica attorno diventa rarefatta; e sembra di stare più in un’illustrazione di Gustave Doré che in una stampa giapponese. Alla conclusione melodrammatica della storia però, una dissolvenza stacca su di un bianco e nero che richiama al presente: con la morte tragica della tradizione e del “bello antico” del Giappone medievale, dimostrati nella vecchia Orin, si passa al passaggio di un treno, che indica il passaggio del tempo, o che riecheggia la nascita (l’arrivo) del cinema o anche le scenografie dei film di Ozu; e accanto alla stazione un cartello recita la parola “Ubasute”, ovvero la tradizione leggendaria di abbandonare le donne anziane nel nulla a morire, a cui il film si ispira. La parola “Ubasute” è scomparsa nel tempo, come quei colori angoscianti e retrogradi ma bellissimi di un passato impossibilmente perduto: ora c’è il grigiore meraviglioso del cinema asiatico, che può solamente osservare, rivivere la tradizione, tradurre l’emozione antica in bellezza, in innovazione, in meta-teatro; in capolavoro, mentre scende la prima neve.
Nicola Settis