Può essere davvero fruttuoso, quando se ne è in grado, riuscire a specchiarsi nelle proprie ossessioni in maniera proficua e non banale, lasciarle decantare dentro e fuori di sé, cullarle con un atteggiamento partecipe e costante. Damien Chazelle può già dire di rientrare a pieno titolo nel novero di registi capaci di fare tutto ciò in modo intelligente e appassionato, forte di un talento decisamente sfacciato per la divagazione libera e la jam session a effetto; il tutto, per altro, all’interno di una cornice espressiva che non a caso eleva proprio il jazz a correlativo oggettivo di un’idea di mondo, di sguardo, di performance artistica, perfino di vita. Dopo Guy and Madeline on a Park Bench, piccolo film dal sapore home made che lavorava sul jazz attraverso i dispositivi formali della Nouvelle Vague, e il ludico e sadomasochistico Whiplash, rivelatosi a sorpresa un clamoroso successo, Chazelle si conferma con La La Land, film d’apertura di Venezia 73, un giovanissimo cineasta (è nato nel 1985) illuminato e sfrontato, con margini di crescita davvero incredibili nel passaggio da un film all’altro che pochi autori suoi coetanei possono vantare.
Non si può naturalmente prescindere, parlando di La La Land, dall’evidente desiderio di Chazelle di omaggiare il musical classico e le sue traiettorie estetiche, in bilico tra rievocazione e appropriazione, tra calligrafia mai servile e ricostruzione coinvolta e lacrimevole di un genere tra i più sfavillanti e imprescindibili di tutta l’età dell’oro di Hollywood. Che Chazelle abbia coraggio da vendere si vede soprattutto da come affronta il musical stesso, di petto e senza paraurti, ma con un controllo minimalista e umilissimo della materia: anziché imbastire un atto d’amore ottuso e derivativo allo splendore che fu, Chazelle mette insieme la storia d’amore tra il musicista jazz Sebastian (Ryan Gosling) e l’aspirante attrice Mia Dolan (Emma Stone) che si articola attraverso una messa in scena fluida e dinamica, priva di baricentro e aperta perfino alle sperimentazioni narrative del regista, che sono perfettamente digeribili ma si muovono spesso e volentieri alla larga da sentieri preordinati e prevedibili. Alla ricerca, probabilmente, di un assestamento che sembra mancare costantemente e che spinge lo spettatore a cercare il proprio posto nel film esattamente come Sebastian e Mia tentano di ritagliarsi uno spazio ideale nel loro angolo di mondo losangelino, tutt’altro che sottratto alla precarietà, agli incidenti di percorso, alle false piste dell’esistenza.
Tra cieli stellati e astratti verso i quali sollevarsi come corpi disincarnati, fondali dal taglio pittorico rigorosamene impressionista e giochi di ombre che riecheggiano i primordi del cinema, i due protagonisti di La La Land si aggirano in una Los Angeles ovattata e dai colori tenui: un involucro urbano ovviamente metafisico ma non per questo meno stritolante rispetto ai sogni di due giovani artisti simili, per destino e vocazione, a mille altri, due fantasmi esili e indifesi che coltivano in maniera fugace e disorganica una storia d’amore da far convivere con un continuo sovrapporsi di passioni e frustrazioni. Chazelle asseconda puntualmente tale fluttuazione tra realtà e immaginazione, tra la vita di Sebastian e Mia e la sua trasfigurazione in immaginario attraverso il filtro della coreografia, del tratteggio buffo, della nota di colore, del dinamismo musicale. «Is this the start of something wonderful and new? Or one more dream, that I cannot make true?»: la città dei sogni, ancora una volta, è un crocevia indistinto di illusioni e speranze mancate, una metropoli prestigiatrice e impalpabile che erige un futuro precario fatto della stessa sostanza dei sogni per poi negare e capovolgere puntualmente le proprie promesse. E’ un caso, dopotutto, se alla fine del film il ritratto di Ingrid Bergman, che invadeva la camera di Mia all’inizio a mo’ di gigantografia, lo ritroviamo in una strada come tante, icona persa tra altre icone di valore assai inferiore, probabilmente privata del suo valore sacrale e affettivo? Chazelle dà l’idea di volerci tornare sopra in maniera volontaria, e non pare affatto una casualià.
Più che modernariato vintage, La La Land, controcampo romantico del precedente Whiplash, è un esempio cristallino di artificio e di dissimulazione elevati al sommo grado di poesia: un musical atipico e peculiare nel quale si canta solo per la metà del tempo e la sgraziata imperfezione dei due protagonisti, sia nei movimenti che nelle prerogative vocali, amplifica il fascino di un’operazione che riesce come meglio non si potrebbe a sottrarre il musical dalla sua aura fuori dal tempo avvicinandolo al presente, ristabilendone i connotati essenziali ma lavorando contemporaneamente sulla fragilità e sull’inadeguatezza impacciata e goffa delle figure che lo abitano. Emma Stone non è mai stata celebrata meglio di così sul grande schermo, con quella sua proverbiale commistione di occhi sgranati e contagiosa, svampita malinconia (che fosse un perfetto “corpo” da musical lo si era però già intuito nel video Anna, scritto dal frontman degli Arcade Fire Win Butler, del quale era la performer principale), mentre Ryan Gosling dà sempre più l’idea di essere una maschera fissa e imperturbabile che basta a se stessa, un attore forte di una plasticità e di una fermezza mimica che pochi interpreti al mondo possono vantare. Chazelle, dal canto suo, insegue soprattutto la prossimità rispetto ai corpi e gli spazi che inscena, attraverso movimenti di macchina carezzevoli ed eleganti e una messa in scena studiata al millimetro ma non per questo polverosa, immobilizzata o ripiegata su se stessa. Quella di La La Land come mostra lo straordinario finale ricalcato in modo commovente sul modello di Un Americano a Parigi, è una joie de vivre spalancata sull’angoscia della nostalgia, un male tipico dei millennials di oggi e perfetto corollario di un musical contemporaneo come nessun altro fin qui realizzato.
Davide Stanzione
edit: Vincitore della Coppa Volpi per Emma Stone, miglior interpretazione femminile a Venezia 73