LA JEUNE FILLE SANS MAINS (2016), di Sébastien Laudenbach
Due osservazioni sarebbero fondamentali alla base di questo articolo, la prima essenzialmente legata al Festival e la seconda al film. Quando quel diavolo a quattro di Jean-Luc Godard (presidente di giuria a Cannes nel 1968) si “inventò” in un certo senso la Quinzaine des Réalisateurs, aveva la sacrosanta idea di svecchiare il festival nella sua Selezione Ufficiale, presentando una piattaforma più legata agli Autori rispetto alle logiche “politiche” di programmazione, e soprattutto un luogo fertile per la fruizione di una certa creatività indipendente. Ora che la Director’s Fortnight (per dirla all’inglese, o Giornate degli Autori come diremmo noi) pare subire una sempre più concreta cristallizzazione simile a quella del fratello maggiore e più blasonato che si tiene al palazzo, le giornate dell’ACID (Association du Cinéma Indépendant pour sa Diffusion) da più di vent’anni segnano un reale passo in direzione ostinata e contraria, e da almeno cinque mettono in mostra una splendida selezione. La seconda considerazione è legata a un linguaggio, l’animazione, che (anche se da quasi totalmente profano come colui che sta parlando/scrivendo) esige sempre più spazi ma soprattutto dignità – della classica battuta “anche se è un cartone, è comunque un film” non ne possiamo davvero più – competitiva o quantomeno di programmazione in Festival così abnormi in cui perle del genere (come peraltro gli splendidi lavori di Barras e De Wit) quasi scompaiono in una programmazione così bulimica. E un’altra perla presente all’ACID, appunto, è questo La Jeune fille sans mains di Sébastien Laudenbach, piccolo e inestimabile gioiello intimissimo in animazione tradizionale, fatto di pazienza, talento e tavole dipinte a mano.
In tempi duri, un mugnaio vende la figlia al diavolo per una fonte d’oro e ricchezze. Protetta dalla sua purezza, lei scappa ma viene privata delle sue mani e così continua a fuggire in un vortice di percezioni. Sempre più distante dalla sua famiglia, incontra la dea delle acque, un giardiniere dolce e il principe nel suo castello. Prima di tutto il suo è un lungo viaggio verso la luce, che diventa ben presto anche il nostro: uno schizzo di dramma e tenerezza, dall’aura metaforica incessante sul buio della natura umana, un viaggio che lambisce il sogno continuando a reinventarsi davanti ai nostri occhi. E’ solo percezione, abbagliante e infinita, ogni tavola uno sprazzo d’umanità immane, solo un tratteggio, un abbozzo continuo e pieno di grazia. Il rincorrersi di forme del movimento della ragazza è lo stesso del disegno che continuamente prende vita su carta, così aperto e ventoso. I colori tenui prendono vita nelle trasparenze e nella sovrapposizione di ciò che da incubo in un attimo si tramuta in sogno. Tra Matisse e Dufy, il disegno è fermento e movimento, accompagnato da una splendida colonna sonora straniante e carnale di ellissi, di cambiamenti d’asse e di prospettive organiche, dove i genitori diventano carnefici dei figli, nati a cavallo di un disegno, e forse solo lì possono sopravvivere.
Tutto così, dalla semplicità alla simbolizzazione, diventa metafora di venalità, codardia, bugia e violenza ma anche di indiscriminata bellezza e speranza, amore e semplice affermazione della vita al cospetto della morte. Il diavolo è nudo, proprio come noi; e ci si sente quasi in imbarazzo o forse non necessariamente degni per osservare tutto ciò, moralmente sporchi e spurii per accettare il senso della deriva di un’umanità così cattiva e feroce. Tutto si risolve nei favolosi primi piani degli occhi, in campi lunghi che trasudano nostalgia di attesa, nel tempo che passa in squarci di durata, nelle presenze e nelle sparizioni, nello stesso mo(vi)mento in cui lo spazio della Storia si fonde con quello del racconto, in cui il ritmo si perde per aprire una finestra/ferita proprio dentro di noi. La Jeune fille sans mains è un film che è una dolcissima sfida alla nostra immaginazione, che ci scuote e ci sorprende facendoci cadere mentre ci aggrappiamo al destino di questa giovane ragazza senza mani perché riflette semplicemente tutta la purezza che noi abbiamo inesorabilmente perso. Quasi non ci si accorge che la ragazza senza mani di Laudenbach è la stessa dei fratelli Grimm, perché la rappresentazione è il vorticoso sciogliersi di qualsiasi freddezza, assorbe ogni rumore della realtà e lo restituisce in piccole vibrazioni luminose, in disegni di disumana bellezza. Così il film finisce, sfidandoci per l’ultima volta a non lasciare qualche lacrima interporsi tra noi e lo schermo per aver vis(su)to la gioia pura e calda di una grande anima che si apre a noi. Quella di una ragazza piccola piccola, che ci invita a vedere, vivere ed amare, grandi e piccini. Un capolavoro, forse l’unico di questa Cannes (fuori Cannes), assoluto gioiello di un’animazione francese che ormai da diversi anni – da Gagnol-Felicioli in poi – sta letteralmente volando.
Erik Negro