LA JALOUSIE (2013), di Philippe Garrel
Un sottile e contrastato bianco e nero, la grana della pellicola che avvolge Parigi di un alone magico, i rapporti di coppia che vacillano. Volti, espressioni, primi piani insistiti. Questo è Philippe Garrel, l’ultimo grande romantico. Un piccolo film, poco più di un’ora e un quarto, per scandagliare ancora una volta, come solo il suo occhio sa fare, l’umanità. La fragilità dei momenti, degli amori, delle occasioni. La solitudine, alla quale l’uomo è ineluttabilmente destinato.
Fra riconoscibili spunti autobiografici -il padre del regista abbandonò madre e figlio per un’altra donna- il film segue Louis (Garrel, quinto film con il padre), attore di teatro, alle prese con la figlioletta Charlotte, la madre di lei, Clothilde, l’attuale compagna Claudia, e la sorella di lui.
Vengono affrontati i rapporti interpersonali, il rifiuto, la fiducia, l’amore, l’accettazione della matrigna, le ristrettezze economiche, i drammi lavorativi, la crisi della coppia, i tradimenti, l’addio. Il tenero rapporto tra padre e figlia. La gelosia. Il fallimento è atavico, perchè l’uomo è al contempo vittima e carnefice di se stesso, dei propri sentimenti, dei propri istinti. Ad ogni ‘Ti amo’ corrisponde un cambio di discorso, le relazioni non legate dal sangue non possono esistere, i fuochi d’ardore sono destinati a spegnersi, sparire, come lentamente muore la brace.
Anche il suicidio, topos garrelliano per eccellenza, entra a far parte dei fallimenti, passando da unica ancora di salvezza a ponte verso la famiglia, una mano tesa verso la forza dei legami di sangue, unica granitica certezza. La divisione del cibo di Louis con la figlia e la sorella ha la potenza filmica di un dolore sublime, esplosione di amara dolcezza e tenerezza straziante.
Non cade mai nel patetismo, né nell’amore sdolcinato. C’è la stasi, il vuoto, maldestri tentativi di riempirlo, legami che si rompono e ricompongono. La Nouvelle Vague che, ancora una volta, muta dolcemente pelle.
E’ un cinema emozionale ed emozionante, un cinema di ricerca quasi sociologica, un cinema di volti, tendente al sogno. Il sogno, occasione per rielaborare visioni, immagini, suoni. Il sogno, dove il figlio di Garrel ne interpreta il padre, dove il regista diventa una bambina, e queste inversioni di ruoli sembrano quasi una necessità di Philippe per poter rielaborare eventi passati mai completamente superati, fra i quali spicca il lutto per la morte, nel 2011, del padre. Non è casuale che il film si apra e chiuda a letto, durante i minuti subito prima di addormentarsi o i primi istanti svegli, ancora pervasi dal torpore. Fino alla vertigine del doppio sogno, l’evocazione del genitore, ed il sangue del sangue che si stringe intorno al patriarca.
Lo sguardo di Philippe Garrel è minimale, discreto, posato, senza strappi, elegante e granitico come un tempio greco. Se il precedente Un ètè brulant, presentato al Lido fra ingloriose (ed esagerate) pernacchie nel 2011, sembrava, complice anche lo squallore attoriale di Monica Bellucci, lo sguardo appannato di un autore senile e tristemente avviato alla pensione, questo La Jalousie riesce invece a convincere pienamente. E’ un soffice cuscino sul quale tuffarsi, un lampo di luce in un concorso mediamente da dimenticare, la piacevole riscoperta di un grande cinema che non è ancora morto. Uno sguardo al passato, per un film che magari non aprirà nuovi orizzonti, ma riesce a risultare classico senza, nonostante i brusii che serpeggiano a fine proiezione, essere vecchio.
Non sono pochi, infatti, i brontoloni che storcono il naso, rimarcando la sostanziale mancanza di novità, il fatto che Garrel faccia un cinema sempre uguale a se stesso. L’accoglienza è tiepida, qui a Venezia, ma il film è caldo: è un cinema degli affetti, autentico, genuino. Garrel filma l’amore, perchè l’amore è sintesi e punto di partenza di ogni altra storia, una matrice originaria, di devastante potenza. Garrel filma l’amore, perchè ritiene non ci sia altro degno di essere filmato. E vince ancora la sua antica scommessa, regalando a chiunque avrà il buon gusto di saperlo cogliere un film di pregevolissima fattura. Morbido, levigato, soave: un gioiellino straordinario.
Marco Romagna