«Scordati quello che è successo a Bucarest, l’ho fatto solo per le telecamere di sorveglianza», mette subito in chiaro la bellissima e conturbante Gilda non appena il poliziotto corrotto Cristi sbarca a La Gomera, sesta fra le isole principali delle Canarie. Un luogo, forse l’unico, in cui non ci sono (ancora) quelle telecamere di sorveglianza installate dai colleghi nella casa del protagonista di fronte alle quali costruire apertamente con l’ipocrisia dell’incontrovertibile veridicità delle immagini un vero che è falso, una realtà che è menzogna, un amplesso che è puro cinema, magari trasmesso su schermi a loro volta simulabili anche quando non esistono fino a trasformarli in nuovo inganno e in nuova trappola mortale. Del resto il motivo per cui Cristi, cinematograficamente sospinto dalle roboanti note di The Passenger, ha deciso di volare e navigare fino all’Oceano Atlantico non è, anche se probabilmente sarebbe ben lontano dal disdegnarla, una ripetizione della focosa razione di sesso che i due hanno messo in scena e consumato di fronte all’occhio meccanico della Polizia “spiona” per sviare i sospetti e suggerire al “guardone” la “verità” più comoda nel momento del loro primo incontro e dei loro primi accordi criminali. Cristi è lì, tutto fuorché “semplicemente”, per imparare il fischio, il silbo gomero, con cui da secoli i contadini e i pastori dell’isola comunicano, da una cima all’altra, a chilometri di distanza. Una vera e propria lingua completa e complessa, fischiata con una mano a uncino nella bocca e l’altra ad amplificare come un megafono, fatta di due vocali e quattro consonanti in grado di comporre oltre 4000 parole da fare arrivare lontano, potenti e incomprensibili per chiunque altro, un po’ come “il telegrafo” abbaiato de La carica dei 101. Una lingua che con le sue regole traduce lo spagnolo in un sibilo modulato, con il quale proprio come in rumeno, in spagnolo e in inglese i protagonisti potranno parlarsi, scambiarsi informazioni, darsi appuntamenti, organizzare piani e fughe, salvarsi a vicenda la vita, e forse innamorarsi. Una lingua come quella del cinema, come quella delle immagini a cui credere anche se bugiarde, come quella su cui Corneliu Porumboiu, al suo ritorno alla finzione e nel concorso principale del Festival di Cannes, si concentra nella sua nuova e straordinaria gemma, capace di coniugare le forme popolari di un film di genere che, fluido e inattaccabile nell’intrattenimento e nella narrazione, parte dalla detection del noir e del poliziesco, si diverte a virarla verso l’ironia sorniona di una divertentissima e maliziosa commedia che esaspera l’assurdo del quotidiano e poi cambia più volte tono fra gli intrighi, la pura azione e il melodramma, con una riflessione teorica e metacinematografica acuta e stratificata che ragiona, partendo dalla centralità dell’immagine e dalle sue forme, sulla creazione e sulle (estreme) conseguenze del linguaggio.
Già, il linguaggio, quel punto mai davvero esplicito eppure sempre limpido e lampante del film, chiave di volta di ogni suo passaggio narrativo e concettuale. Fra le già citate videocamere di sorveglianza, le sale cinematografiche in cui darsi decisivi appuntamenti di fronte ai fischi dei nativi americani così simili al silbo gomero che fanno sentire «circondato» anche John Wayne nel crepuscolo di Sentieri Selvaggi, le telefonate anonime e le accuse alla polizia del caposaldo noir rumeno diretto e interpretato nel 1974 da Sergiu Nicolaescu Un comisar acuză che passano in televisione proprio di fronte al nuovo commissario accusato coprendo con gli spari della finzione quelli “veri” della resa dei conti fra donne e i set cinematografici abbandonati nei quali dichiarare ancora una volta il falso nel crescendo di poliziotti corrotti, talpe, tangenti, piani, insabbiamenti, false confessioni, albergatori e narcotrafficanti melomani, suoni, parole, “verità” da far vedere, multilinguismi e doppiogiochismi, La Gomera è un costante lavoro sulle forme e sulle stratificazioni che costantemente fa linguaggio, cerca linguaggio, usa linguaggio, ragiona sul linguaggio, ribalta il linguaggio, riscrive il linguaggio. Fino a permettersi il lusso di giungere a sovvertire persino Psycho, con il coltello attirato dallo sciabordio dell’acqua pronto a conficcarsi ancora una volta nella carne ma destinato a trovare invece una doccia vuota dietro alla tenda e una pistola dietro alle spalle. Perché il linguaggio è un segno, è un significante puro sul quale scatenare un turbinio di significati da decodificare, è la base fondamentale di qualsiasi comunicazione e di qualsiasi discorso non solo metacinematografico. Poco importa che sia scritto, verbale, in immagini, spedito via sms con un cellulare usa e getta comprato per l’occasione e del quale liberarsi oppure anche semplicemente sonoro, come il silbo gomero, o come la musica che da Iggy Pop allo Strauss della Marcia di Radetzky, passando per Casta diva sull’autoradio e per il L’ho perduta me meschino del mozartiano Le nozze di Figaro con cui «educare» gli ospiti dello squallido motel in cui, nel più classico e immancabile dei materassi, sono realmente nascosti i soldi, riempie di ulteriori significati e frammentazioni La Gomera. Il linguaggio è un qualcosa da conoscere, capire, sfruttare, costruire, capovolgere, frammentare e ricombinare, proprio come frammentati e ricombinati sono gli insistiti specchi, i dettagli, le continue finzioni dei tradimenti e dei doppi giochi, e proprio come frammentate e ricombinate sono le (non) “verità” della già citata nottata di fuoco con chi per concordare con il poliziotto corrotto la liberazione di un arrestato si finge escort di lusso, le (non) “verità” della confessione da cui organizzare la fuga di Zsolt, le (non) “verità” del doppiogiochista infiltrato in sostanza tanto nell’organizzazione criminale quanto nella polizia, le (non) “verità” del proprietario del motel, le (non) “verità” dei tentativi di corruzione e delle telefonate anonime, le (non) verità di chi mente per delinquenziale professione, e soprattutto le (non) “verità” del cinema, quello messo in scena da quel Corneliu Porumboiu che lavorando proprio sul linguaggio già in The Second Game aveva ricostruito una vita e un rapporto umano mostrando solo la registrazione di un’innevata partita di calcio e in Comoara aveva trasformato una commedia in un ribaltamento dei fantasmi politici del passato in un nuovo Sol dell’Avvenire, e quello meta-messo in scena dai suoi protagonisti per mandare ripetutamente fuori strada la polizia.
Un cinema che dal passato torna sugli schermi della Cinemateca per dialogare con quello del presente e completarne gli assunti, un cinema che da sempre e per definizione costruisce e rende credibile con la sua sintassi il vero e il falso, ingannando lo spettatore e riflettendo, sardonico e straordinariamente profondo, su se stesso. E non certo è certo un caso, in questo senso, che al di là della profonda e autoironica comicità della sequenza a trovare la più stupida delle morti nel magazzino in cui i criminali – un po’ come Le iene tarantiniane – stanno prendendo accordi sulla complessa organizzazione dell’evasione di Zsolt, sia proprio un regista alla ricerca di location. Ci sono i capitoli dedicati – falsamente, s’intende, come inevitabile e necessario in un film che fa finzione per ragionare sulla finzione nella comunicazione – ai vari protagonisti Gilda, Zsolt, Kiko, Mama, Paco, Magda e Cristi. C’è la scansione narrativa che, usando i più classici flashback fra le basi della lingua filmica fa liberamente avanti e indietro nel tempo per stuzzicare l’interesse del pubblico e per virare in ironico e comico ciò che normalmente non lo sarebbe. C’è una lingua da imparare (partendo, come con ogni lingua, dal chiamare la «mamma» per allenarsi duramente nelle posizioni delle mani, nella forza del soffio, nella modulazione del fischio, nella complessità delle regole grammaticali e sintattiche che ogni linguaggio porta in dote) e da usare come un codice segreto per comunicarsi appuntamenti, ospedali, arrivi alle spalle e occasioni di ritrovarsi fra le esplosioni di luci e colori degli “Alberi” di Singapore finalmente liberi e fuori da tutto. E soprattutto c’è una radicale svolta stilistica di Porumboiu, che rinuncia del tutto ai suoi consueti pianisequenza fissi e dal portabagagli che ormai sono marchio di fabbrica del cinema rumeno per adattare coerentemente le forme del suo cinema a quelle del genere, in un inedito dinamismo in steadycam a precedere e seguire i protagonisti fatto di dettagli, di schermi, di citazioni, di stalli alla messicana, di concitate riprese sottomarine e di costanti “verità” da suggerire. Era probabilmente dai tempi di When evening falls on Bucharest or Metabolism che il suo cinema non si rivelava così smaccatamente teorico e metalinguistico, ma questa volta non è l’essenzialità di una messa in scena scarna il punto del sempre più indispensabile autore rumeno. Esattamente all’opposto, La Gomera inanella e sfrutta le forme e le soluzioni del cinema mainstream per porsi come un punto di rottura del mezzo, al contempo divertentissimo e illuminante nel rimetterne in discussione ogni soluzione, ogni espediente, ogni forma linguistica. Trasformandola in un fischio, forse. Di certo in un piccolo capolavoro, di fronte al quale non ci si può che entusiasticamente genuflettere.
Marco Romagna