Scrivere di questo film, soprattutto in questi giorni, è estremamente complicato. Con gli attentati di Parigi ancora negli occhi, le inutili controffensive occidentali contro la Siria, il sangue innocente che chiama altro sangue innocente e ancora, come se non bastasse, il colpo di coda del daesh con l’hotel assaltato in Mali, giunge sugli schermi del Torino Film Festival, come evento speciale di TFFdoc, il nuovo lavoro del regista cambogiano Rithy Panh. Un film sardonico e di indole anticoloniale, ma al contempo ben conscio delle ambiguità storiche, del tempo che passa e dei debiti culturali che il suo Paese conserva tutt’ora nei confronti della Francia. Un film saggio complesso e pienamente politico, lucida riflessione sull’incontro-scontro fra due culture, sull’utopia di una pacifica e produttiva convivenza che diventa ineluttabilmente distopia, guerra civile, dolore, morte.
Se nel precedente lavoro di Panh, L’image manquante, il regista aveva utilizzato modelli in plastilina e massima staticità per ricostruire la memoria negata, appunto quell’immagine mancante del massacro della sua famiglia perpetrato dagli khmer rossi, in questo La France est notre patrie le immagini sono al contrario una profusione, quasi un bombardamento, in cui però a mancare, stavolta, è paradossalmente l’audio. Le forme scelte dal documentarista cambogiano, infatti, sono quelle del film muto, con immagini d’archivio d’ogni sorta -la vita prima del colonialismo, la costruzione della ferrovia, l’appropriazione forse indebita da parte delle donne francesi di palazzi e spazi storici cambogiani che in sostanza non possono capire, la corsa a perdifiato di un risciò quasi in competizione con le auto, la presenza dei soldati francesi che si intrattengono e si fanno immortalare con le più belle e disponibili prostitute, fino alla rivolta popolare e alla cacciata dei coloni- rimontate e alternate con cartelli dapprima ironici, poi, di pari passo con il precipitare della situazione storica e politica, sempre più aciduli, sardonici, disperati, scritti da un ipotetico punto di vista francese in netto e lapalissiano contrasto con ciò che viene mostrato.
Ma non si tratta di una filippica anticolonialista, e neppure di una sorta di rivendicazione identitaria da parte della nazione storicamente più debole. La France est notre patrie è piuttosto una lucida riflessione sulla memoria, sull’amarezza dopo una ghiotta occasione di reale meticciamento e reciproco progresso malamente sprecata, con la consapevolezza che con la fine del colonialismo francese la libertà è stata solo un’illusione, fugaci brandelli di Storia in attesa che l’invasore si ripresentasse in nuove e ben peggiori forme, dal calcagno fetente degli khmer rossi così ben raccontati (in Indonesia) dal Joshua Oppenheimer del dittico The Act of Killing e The Look of Silence, ai soldati americani impegnati nel vicino Vietnam. Rithy Panh, dimostrando ancora una volta tutto il suo talento nel footage e nel montaggio, usa la moviola in punta di fioretto, smentendo con la scelta e la sequenza delle immagini i propri cartelli che parlano di grandezza coloniale, di generosità della Francia, di pacifica coesione, ma anche e soprattutto di selvaggi ingentiliti, di carità cristiana e del sogno di un progresso sociale pacifico e democratico. Sullo schermo, nel frattempo, scorrono immagini di sfruttamento della popolazione e delle risorse, di dittatura militare, di indottrinamento religioso. Libertè, Egalitè, Fraternitè, della Francia e contro la Francia. Fino alla lotta armata, perché “il vero nemico siamo noi”. L’esercito transalpino verrà sconfitto e scacciato dal Popolo, ma rimarranno per sempre i loro monumenti, i loro palazzi, le loro strade, la loro cultura.
Rithy Panh restituisce un senso ad immagini giocoforza casuali, sopravvissute agli anni e all’ossigeno sugli scaffali impolverati di una qualche cineteca. Immagini che costituiscono una memoria storica fondamentale, insostituibile, necessaria per comprendere il presente. Tutto il lavoro del regista, del resto, è una riflessione sul concetto stesso di memoria, sulla Storia che passa e si ripete, sulla necessità di capire come si è formata una cultura partendo dagli ingredienti primari ed embrionali della stessa. La politica coloniale francese, non solo in Cambogia, ha al contempo costruito e distrutto, occidentalizzato e sfruttato. Ma, nonostante i barlumi di reale progresso socialdemocratico si siano rivelati sprazzi illusori, quando non ipocriti, La France est notre patrie. Una patria imposta e poi scacciata ma ancora presente, una patria disconosciuta eppure sentita, una patria in dissoluzione eppure parte integrante della Storia, e quanto mai dell’oggi. Non è mai cambiato nulla.
Marco Romagna