LA FORMA DELLA VOCE (2016), di Naoko Yamada
La Kyoto Animations, spesso abbreviata in KyoAni, è una delle principali case di produzione e distribuzione di opere d’animazione in Giappone, fabbrica di molte delle serie anime più popolari dei nostri tempi, e nel campo della fruizione televisiva probabilmente porta sullo schermo alcuni tra i titoli più seguiti, risultando forse paragonabile solo alla Shaft (Monogatari e Puella Magi Madoka Magica), alla Bones (Soul Eater, Fullmetal Alchemist e il capolavoro di Watanabe Space Dandy) e alla Production I.G. (Ghost in the Shell, L’attacco dei titani, FLCL e molti altri). A differenza di questi studi di animazione, tuttavia, che sono estremamente versatili sia per quanto riguarda lo stile sia per quanto riguarda il contenuto, i lavori della KyoAni tendenzialmente seguono un filo rosso adatto per delineare da subito un pubblico preciso e ben selezionato. Praticamente tutte le serie prodotte dalla Kyoto Animations hanno al centro le relazioni interpersonali tra gruppi di personaggi archetipici e stereotipati, tendenzialmente con un sottofondo romantico o comico, che spesso si ritrova ad avere diramazioni drammatiche e tragiche (ricordiamo Chūnibyō demo koi ga shitai! e, ‘in extremis’, lo strappalacrime Clannad). I protagonisti maschili sono spesso imbarazzati, in bilico tra un infantilismo di cui si vergognano e la necessità di crescere, e le loro controparti femminili sono eccentriche e solitarie; tutti alla ricerca di un posto nel mondo. Una sottocategoria della KyoAni è però quella cosiddetta “slice-of-life”, basta su di un susseguirsi di sketch umoristici, anche demenziali, atti a rendere isterici ed eccessivi i momenti più convenzionali e semplici della quotidianità degli studenti e delle studentesse dei licei giapponesi. K-On!, che ha come protagoniste i membri di una girl-band pop scolastica, è sicuramente la serie più di successo nel genere, seguita da Lucky Star e da Nichijou!, probabilmente la serie più interessante della KyoAni, una specie di unione delirante tra le convenzioni boriose del genere e il surrealismo comico dei Monty Python. L’audience della casa di produzione è quindi principalmente composta da studenti delle scuole medie e superiori giapponesi e, in Occidente, dagli ‘aficionados’ del genere, con particolare occhio verso l’aspetto romantico molto leccato e quello umoristico che è spesso basato sul riciclaggio dei luoghi comuni dell’estetica su cui l’intera KyoAni si basa. La forma della voce, tratto dal manga A Silent Voice, passato fuori concorso al Future Film Festival nel 2017 e uscito in sala come evento speciale, è il primo lungometraggio da loro prodotto a non avere come principale fonte di riferimento una serie pre-esistente, e in quanto tale ha sin dall’approccio iniziale un certo distacco dalla media dei loro lavori seriali, perlomeno parzialmente: il pubblico ricercato è sempre lo stesso, ma le scelte nella narrazione, nella caratterizzazione dei personaggi e nella regia e nel montaggio dei momenti cardine è più pregna e interessante, colma di decisioni curiose più vicine, sotto certi punti di vista, ai ritmi di Your Name. di Makoto Shinkai.
Se il limite del succitato film di Shinkai consisteva sostanzialmente nell’incongruenza tra una delicata e prototipica storia d’amore fantascientifica e un ben più complesso conglomerato lisergico di ossessioni nipponiche (l’apocalisse, Fukushima, il contrasto tra la tradizione contadina à la Ozu e i ritmi frenetici delle metropoli occidentalizzate), quello di La forma della voce, diretto da Naoko Yamada, precedentemente nota come principale regista di ogni tassello dei franchise di K-On! e di un’altra serie KyoAni chiamata Tamako Market, è in un problema di ritmo e di approccio generazionale. Sono insomma difficoltà tipiche di un certo tipo di cinema d’intrattenimento che andrebbero accettate e integrate nei tradizionali deficit del formato dell’anime moderno: si può pensare al fatto che molti personaggi vengono considerati importanti nella storia pur senza alcuna caratterizzazione, oppure ai prolissi approfondimenti di situazioni superficiali che occupano una quantità esigua del montaggio, che altrimenti avrebbe potuto essere dedicata ad aspetti più fondamentali ed espressivi della storia. Il film inizia con il protagonista maschile, Shoya Ishida, che abbandona svariati aspetti materialistici della sua quotidianità adolescenziale per tentare di suicidarsi. Ma si frena. Da lì, partono i titoli di testa, un’improbabile e ingannevole galleria di immagini di Shoya alle elementari, che passa il tempo con due amichetti (che occupano pochissimo spazio sullo schermo, apparendo quasi più nella sigla che nel proseguimento del racconto), con in sottofondo My Generation degli Who. La vera trama però inizia con l’analessi, appunto, della scuola elementare, durante la quale Shoya incontra la protagonista femminile, l’altro polo nella narrazione, ovvero Shoko Nishimiya, una ragazza sorda che comunica prevalentemente scrivendo su un quadernetto. All’inizio cocca degli insegnanti, presto viene presa di mira da compagni e compagne di classe, e in particolare proprio da Shoya, che la accusa di ricercare troppo le attenzioni altrui, le rompe svariati oggetti finendo per essere sgridato dagli insegnanti e isolato da compagni e amici. Dopo che Shoko cambia scuola, un’ellissi temporale di qualche anno porta i protagonisti direttamente al liceo: Shoya, poco dopo il tentato suicidio fallito a causa di una presa di coscienza, è uno studente scarso ma soprattutto solitario, traumatizzato, colmo di ansie che lo privano della capacità di guardare i suoi coetanei in faccia. Incontra Shoko per caso e le restituisce un quaderno che le aveva rovinato anni prima, ed è lì che comincia un sentiero roccioso verso la redenzione. Shoya deve dare una prova di essere cambiato, che il dolore l’ha formato e l’ha portato a una maturazione, e lo deve dimostrare non solo a Shoko ma anche alle loro rispettive famiglie e ai loro vecchi e nuovi compagni di classe. Deve provare che non ha più interessi egoisti e utilitaristici, ovvero che il suo fine principale rimane quello di scavare nell’intimo, costruire rapporti, provare qualcosa per l’altro. I rapporti più densi, oltre ovviamente a quello con Shoko che è atto anche a delineare con precisione il problema del bullismo in Giappone, sono con la sorella minore di Shoko e con Ueno, una loro vecchia compagna di classe che col tempo non ha abbandonato la propria conflittualità immatura e discriminatoria.
La connessione mentale tra Shoko e Shoya, che spesso sembra collimare con la sfera del romanticismo ma senza mai entrarci pienamente, è forse l’aspetto più delicato e riuscito di La forma della voce oltre a quello prettamente tecnico del character design e della fluidità dell’animazione, da anni il punto forte e quasi impareggiabile della KyoAni. C’è un’incredibile alchimia che si crea tra di loro, in un confronto costante in cui ci si scambia i ruoli di vittima e carnefice in continuazione finché non si giunge lentamente alla consapevolezza che il dolore è il dolore, la vita è la vita, l’emozione è l’emozione, ed è da lì che si deve partire per andare avanti, verso una coscienza di un mondo che non si divide in vittime e carnefici ma si unisce in esseri umani, in generazioni. Lo straziante tentato suicidio di Shoko, la sequenza decisamente più complessa per tensione e montaggio di tutto il film, è accompagnato fuochi d’artificio, spesso contrapposti, nel cinema, all’orrore (v. Cenere e diamanti di Wajda) o alla decadenza sociale (v. Manifesto con Cate Blanchett); qua però più che un qualcosa che accade in sottofondo i fuochi d’artificio rappresentano una meraviglia da osservare in un ultimo attimo, cercando nell’astrazione un qualcosa che possa impressionare il concreto. Shoko e Shoya sono personaggi di un cartone animato, sì, ma hanno un’individualità e una personalità che riflettono i comportamenti adolescenziali in maniera sincera. Alla fine, Shoya diviene il vero protagonista, e il film si conclude con un climax formativo, con un abbandono delle paure e delle barriere, con un’accettazione del mondo che ricorda Amare il mondo di Brecht: «Ci impegniamo: senza pretendere che gli altri si impegnino per noi, senza giudicare chi non si impegna, senza accusare chi non si impegna, senza condannare chi non si impegna, senza cercare perché non si impegna». Se K-On! parla di condivisione, Lucky Star di osmosi nel ricordo e Nichijou di accettazione dell’assurdo, allora La forma della voce, insieme a La scomparsa di Haruhi Suzumiya (2010, il più lungo film d’animazione mai prodotto, di 163 minuti), completa un discorso sul contatto umano anche al di fuori della fisicità, verso i sogni che si materializzano, attraverso i quali giunge il compimento di sé. Non sarà un film complesso, nonostante la ricchezza di piccole metafore nella gestione degli spazi, e anzi la sua semplicità spesso porta a prolissità e incongruenze che possono causare intoppi durante la visione (in particolare se si ha una certa conoscenza dei ritmi seriali della KyoAni e dei prodotti anime meno fantasy/sci-fi degli ultimi 3-4 lustri), ma dietro tutto ciò, dietro i dettagli di sottofondo e le angolature anticonvenzionali, dietro i gesti esagerati e le macchiette inespressive, si cela una necessità da premiare: quella di valorizzare l’interiorità dell’uomo, dell’adolescente, e con essa la capacità innata di trovare, negli occhi dell’altro, una forma riconoscibile, anche sfocata o intangibile, con la quale rapportarsi.
Nicola Settis