LA FORÊT DE QUINCONCES (2016), di Grégoire Leprince-Ringuet
Un altro tassello da aggiungere alla follia produttiva (e senza dubbio geniale) del leggendario Paulo Branco. Soprattutto perché non è facile dare fiducia a un giovane attore come Grégoire Leprince-Ringuet nel progetto così coraggioso de La Forêt De Quinconces, presentato in Séances spéciales al sessantanovesimo Festival di Cannes. Eppure ancora una volta il film si è fatto, e rispetta pienamente la dolcissima pazzia dei suoi protagonisti. Si parte da Rohmer, Ondine e Paul sono ama(n)ti, ma quando lei si vuole prendere una pausa, lui giura che non potrà più amarla. Per dimostrarlo, insegue la bella Camille, che ha intenzione di sedurre e abbandonare come se quasi fosse un oggetto di rivendicazione sentimentale. Però non ha fatto i conti con il sogno, Camille ammalia Paul portandolo sul crinale della follia, e proprio quando lui, in preda a questo incantesimo onirico, sta per cedere deve affrontare il ricordo del suo amore passato. Quasi all’orlo dell’autodistruzione.
C’è un fondo di magia in tutto ciò, nel continuo gioco di forme linguistiche e di realismo lirico, in cui la poesia diventa la lingua ed il sogno la sua codifica. Il gioco di specchi del sentimento ha le sue regole, percorre le sue voglie, continuamente ribaltato dallo stupore sempre più incontrollabile. Continue sono le rime tra le frasi e le immagini in un montaggio sinuoso che definisce la costante oscillazione tra la musica, i colori e il significato multisensoriale del loro vissuto. Parrebbe essere un’avventura romantica post-moderna, ma affonda sempre più verso un estetica del meraviglioso arcaico in cui la seduzione è libertà, gioia, dolore, dramma e magia. Solo nel sogno c’è la chiave di tutto ciò, ma loro paiono quasi non saperlo o forse dimenticarlo, perché l’amore si ritrova ad essere sempre più un’invenzione poetica di ruoli e parti che si lambiscono, si sfiorano e si feriscono continuamente.
Il set è minimo, le scene pochissime ma cambiano vorticosamente i punti di visti, gli scavalcamenti, i falsi raccordi, i cambi di fuoco, come se l’immagine stessa non potesse riconoscersi in questa magia continua del sentimento, quella magia che cerca la sua fisicità nel fotogramma. Al di là del melodramma fiammeggiante e fortemente metaforico dell’apertura in cui forze drammatiche sono decisamente contemporanee, con il variare il tono delle scene successive il film diventa un eterno rincorrersi di anime che vorrebbero appartenersi nella loro impossibilità visionaria, ideale e disordinata. Viaggiatori di un mondo incapsulato in cui il vagabondo è filosofo ed il libraio è psicologo, dove dagli idranti scorre il sangue e le foreste schiudono figure geometriche. Così l’abisso insuperabile, che causa l’incomunicabilità, resta insuperato tra fantasmi erranti, cupi e solitari, immersi nella mobile fiumana delle moltitudini, ma profondamente unici e speciali. Proprio così il film li abbraccia e se li porta via, lasciando a noi l’illusione di un amore e l’idea che un cinema de(l)genere possa farcelo continuamente (ri)vivere.
Erik Negro