LA FLOR (2018), di Mariano Llinás
«Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non giocare a un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco. Non si stanno divertendo. Non mi diverto se loro non si divertono. Se faccio in modo che si divertano, allora potrò divertirmi con loro. Far sì che si divertano, non è un divertimento. E’ duro lavoro. Potrò divertirmi a scoprire perché non si divertono. Non sono tenuto a divertirmi nel cercar di capire il perché non si divertono. Ma vi è persino del divertimento nel far sembrare loro che non mi diverta a scoprire perché non si divertono.»
[Nodi (1970) di Ronald D. Laing]
La Flor dura 14 ore. Sia presentando il film nell’auditorium FEVI al Locarno Festival sia all’interno del film stesso, il regista Mariano Llinás ha voluto personalmente prenderne atto con gli spettatori, come volendo saldare un patto chiaro e dunque stabilire un’amicizia lunga con il pubblico. Un’amicizia lunga 14 ore. E quindi, è giusto partire da qui, perché essendo il film fluviale e complesso bisogna stabilire anche all’interno di un’eventuale sua analisi una struttura.
E partiamo proprio dalla struttura del film, che è complessa da descrivere ma necessaria da capire, anche perché è cerebralmente illustrata dall’autore in vari siparietti all’interno del film, contornandone gli obbligatori intervalli. Proprio nel prologo vediamo Llinás stesso, anticipato da delle inquadrature fisse di un ambiente quasi casto, deturpato da una struttura elettrica che potrebbe benissimo essere sia un’opera d’arte che un traliccio. Il regista si siede a un tavolo e guarda in macchina, non muove le labbra e cambia di rado espressione, sempre con spirito autocritico ma anche con un’autoreferenzialità che può irritare ma che non si nasconde, se non mediante la berlina autoriflessiva. Sfogliando il suo taccuino di appunti presi per descrivere il film, Llinás lo descrive con la voce fuori campo. Il film ha una pseudo-struttura a fiore: i petali sono quattro storie, quattro frecce che vanno verso l’alto. Sono i primi quattro episodi del film, quattro storie che non hanno una conclusione. La quinta storia è un punto di snodo, dal quale spunta una freccia che va verso il basso, che è il sesto e ultimo episodio, che è l’unico ad avere, anzi a essere, una fine. Le proiezioni del film a Locarno sono state disposte e programmate in due modalità, una in otto parti distribuite in maniera sfaccettata tra i vari episodi, e una in tre parti curata e approvata dal regista come modalità di visione ideale. Delle tre parti, la prima dura circa 3 ore e 20 min, la seconda 5 ore e 40 min, la terza 5 ore e 20 min; nella durata sono inclusi degli intervalli, spesso accompagnati dai commenti di Llinás nello stesso spazio incontaminato (e sempre da lui introdotti in maniera molto specifica prima delle proiezioni ufficiali). La prima parte include il primo e il secondo episodio, che rispettivamente durano all’incirca un’ora e mezza e due ore, storie sempre più lunghe ma sempre ugualmente interrotte, in parti sempre più avanzate e sempre leggermente più conclusive. La seconda parte, la più lunga, include unicamente il terzo episodio, a sua volta tuttavia diviso in tre atti. La terza parte comprende invece la quarta storia (divisa anch’essa in due atti, per la durata di più di due ore) e poi, dopo un’ultima introduzione di Llinás, il quinto episodio e il sesto, seguiti in realtà da un settimo episodio “non ufficiale” che sono i titoli di coda, straordinario piano sequenza di più di mezz’ora che è per certi versi, forse, la cosa più poetica dell’intera operazione.
La lavorazione, tra pre-produzione, riprese e montaggio, è durata 10 anni. I primi due episodi erano stati proiettati a Rotterdam già nel 2016. Il primo episodio è una sorta di horror di serie B, girato con pochi mezzi e con molta macchina a mano. Il secondo è un “musical con un pizzico di mistero”, in teoria, ma sarebbe meglio definirlo una soap opera a tema musicale con una sottotrama criminosa che verge col paranormale. Il terzo è una spy-story ambientata negli anni ’80. Il quarto un delirio metacinematografico in due parti, sperimentale e variegato con più protagonisti e colpi di scena. Il quinto un cortometraggio muto che tributa Una gita in campagna di Jean Renoir, completamente senza audio eccetto che per una scena in cui in sottofondo c’è l’audio del film originale. Il sesto è un brevissimo western muto. Protagoniste di tutti i corti sarebbero le stesse quattro attrici: Elisa Carricajo, Pilar Gamboa, Laura Paredes e Valeria Correa. In verità sono protagoniste assolute dei primi tre, importanti nel quarto ma spesso fuori campo, completamente assenti nel quinto e di nuovo protagoniste assolute nel sesto. In vari momenti del film è detto che il film è fatto con loro e per loro. Molte recensioni e presentazioni del film lo vedono come un tributo a tutto tondo all’arte cinematografica, ma più che un sommario dei generi filmici e delle sue declinazioni l’operazione appare vicina a quella di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, un elogio alla soggettività dei percorsi narrativi, sempre evocando nel fuori campo la possibilità di un moltiplicarsi delle storie. La Flor, piaccia o meno, è un universo a parte, compresso senza pietà in una durata difficile perché altrimenti questo universo non può espandersi inconsciamente. È un’idea brutale per lo spettatore, sperimentale in maniera sia interessante che arrogante, ma nel momento in cui si sta al gioco, La Flor diventa un’esperienza inedita, una specie di versione cinematografica della sequenza di Fibonacci.
La parte 1 comincia da una coppia che pomicia nel deserto, ma l’amplesso non comincia perché la donna ha una crisi di pianto. Poi si passa in un laboratorio, e poi, dopo un lungo piano sequenza molto improvvisato, una telefonata di un tale Giardina annuncia che è arrivata una mummia da preservare in magazzino. A una ragazza di nome Yanina viene chiesto di sorvegliare la mummia, e in un momento di ‘ubris’ le ruba gli occhi. Da lì in poi si manifesta una maledizione che sembra sempre più difficile da sconfiggere. Non è propriamente un film spaventoso, e anzi la sua tensione, conservata intatta da un’ingenuità tipica della “serie B” a cui l’episodio ambisce di appartenere, è spesso spezzata da umorismo volontario e non, monologhi scoppiettanti, personaggi secondari fuori luogo, situazioni al limite del grottesco. L’occhio di Llinás segue le quattro protagoniste con una regia ai limiti dell’amatoriale, movimentata immotivatamente o statica e piatta, ma non mancano le finezze, tra primi piani sfocati e controcampi spettrali, tra esorcismi pacchiani e veri momenti intimi. Appena sta per essere fatta la rivelazione/punto di svolta della trama, comincia il secondo episodio, perché, come direbbe Michael Ende, «questa è un’altra storia e verrà raccontata un’altra volta»; e l’umore già è diverso, sin dall’inizio, con un montaggio parallelo di racconti poetici d’amore e rivelazioni dal passato, in bianco e nero, bugie che vengono svelate sotto le note delle canzoni Yo soy el fuego e Las estrelhas, composte apposta per il film. Qua le ragazze interpretano delle figure che girano attorno al mondo della musica o attorno al mondo dei rituali pagani per assumere veleno di scorpione; le vicende si fanno mano a mano più surreali, più incomplete e misteriose. Il paranormale penetra anche nel mondo del sentimento.
La regia non cambia, ma l’approccio si fa più empatico, la storia più viva, con le canzoni che più che mai aiutano a costituire un affresco pseudo-pop in cui il completarsi delle parole in un dialogo cantato diventa la più grande o la più sofferta delle dichiarazioni d’amore. Uno dei personaggi, una cantante di nome Andrea Nigro, riflette a lungo sul proprio ruolo nella storia, dicendo a se stessa: «se fossi parte di una storia sarei un personaggio di sottofondo». All’interno del macrocosmo di La Flor, che gioca con gli stereotipi di ogni genere, già si seminano momenti cerebrali, comete concettualmente pirandelliane. Usando la musica extradiegetica eccessivamente melodrammatica come sfondo godardiano per accentuare il collasso dei confini della dimensione drammaturgica, in queste prime due sezioni Llinás dimostra uno sforzo interessante di voler comporre un labirinto borgesiano ma anche avanguardistico che possa porsi come enciclopedia delle modalità di racconto e di stile nel cinema, con un’evoluzione che non fa che intensificarsi, ma è ancora davvero difficile individuare il progetto sotto un’identità definita. Sono chiari i suoi intenti quasi satirici, in una specie di iconoclastia verso l’immagine che porta a una dilatazione sfaccettata e divertita (memorabile la scena eterna di «Tranquila, Flavia, tranquila») oltre la quale altro non c’è che il colpo di scena, o la citazione raffinata, e già da qui ci vengono in mente in maniera diretta film come Psycho, Tre colori: Film Blu e Il mistero del falco e in modo più improbabile anche Scary Movie o Vigasio Sexploitation. Ma si sta ancora svelando la potenzialità intimista del progetto, ciò che può rendere davvero infinite le possibilità della matassa del racconto, e il tempo che ciò richiede pone lo spettatore davvero nella posizione difficile di dover assistere a un crescendo nonostante tutto si stia muovendo in maniera così inconsistente. È un giochino postmoderno? O qualcosa che può davvero dispiegare il dispiegabile nel cinema? L’inconsistenza concettualmente è talmente pregna di narrazioni e di riflessioni teoriche che prescindono dal contenuto dei singoli episodi che non sembra che ci sia niente di preoccupante, e non si può che procedere.
Nel terzo episodio (ovvero nella seconda parte), Llinás ridipinge le figure di Frank Costello di Melville, La talpa di Alfredson e Jauja di Alonso. La sua prima ora è la parte più faticosa dell’intera esperienza di La Flor, una lenta e frustrante macrosequenza d’azione e di tensione in cui le minacce sembrano plastiche come nei primi pseudo-noir a basso budget di Fassbinder e le didascalie tarantiniane giocano con se stesse continuando un gioco al massacro della didascalia e della concezione regolare di cinema. Llinás, sia chiaro, non vuole distruggere l’immagine né ha la presunzione di riportarla in vita, o almeno così ci pare. Principalmente, per ora, sembra volersi divertire, parodizzando la prolissità di Tarr come quella della lotta di Essi Vivono, e mette in scena un mondo spionistico in cui al centro ci sono le 4 protagoniste in una missione difficilissima, che consiste col rapimento di un fisico svedese. Per vari intrighi, la minaccia sembra avvicinarsi sempre di più, ma nel secondo e nel terzo atto invece di accentuare la tensione Llinás racconta le storie individuali delle quattro protagoniste. Come narrazione extradiegetica, la voce stessa dell’autore si alterna a quella della moglie in un cerebrale e calligrafico macro-racconto che per ognuna delle quattro protagoniste sfrutta una soluzione drammaturgica diversa sempre per raccontare conflitti di tipo diverso: il primo è un conflitto interiore, tra una donna (Pilar Gamboa) e se stessa, in un setting da film storico tra Berlino e Londra in cui appare anche Margaret Thatcher; il secondo, intitolato Giovanna d’Arco, è un conflitto tra una donna (Valeria Correa) e Dio, con un lungo processo di accettazione dell’esistenza di sfumature tra bene e male mediante il superamento dell’impulsività della guerrilla, e con Dio che si chiama “il Sogno” e che si manifesta con l’apparenza di un fuoco, introducendosi con «Yo soy el fuego» riportando alla canzone-tormentone del secondo episodio; il terzo, il più bello, ha al centro una storia d’amore, un conflitto tra una donna (Laura Paredes) e il suo partner maschile, che si rincorrono poeticamente in un mélo di morte e distruzione che non fa che espandersi e universalizzarsi, creando la parvenza del più puro dei sentimenti senza neanche un dialogo; il quarto e ultimo con Elisa Carricajo racconta il conflitto tra una donna e la sua patria, l’Unione Sovietica, e si conclude con uno straziante monologo incrociato (voce parlata in russo più voce narrante in spagnolo) recitato dallo stesso Llinás con al centro il passato, il presente e il futuro dell’ideologia comunista.
In questo terzo episodio, insomma, con il dilatarsi della durata si dilatano anche i tempi del racconto e la matassa del racconto stessa, includendo le analessi in una sorta di parabola decostruita e frammentata. Mentre i primi due episodi parevano un’introduzione interrotta di un flusso di icone del cinema e della narrazione, questo terzo, che ha un finale aperto che tuttavia potrebbe benissimo essere un finale, è il primo vero e proprio momento di reale espansione dei ritmi della scena per l’intera durata di quello che altrimenti potrebbe essere un normale lungometraggio di genere. Raccontando il retroscena delle sue eroine, Llinás dà loro la possibilità di un riscatto e di una nuova vita, di una nuova profondità. È qui che il giochino postmoderno smette di suggerire e comincia a urlare, nella misura in cui la fluviale sequela di informazioni date dalla voce narrante, più che creare un’immagine completa della vita di un personaggio fittizio, finisce per suggerire le migliaia di possibilità scaturibili dal fuori campo. Il non-raccontato è il succo del racconto, mentre il racconto stesso viaggia nel costruire con l’ambiguità un altro succo. Nella parte 3 sono molteplici i giochi metafilmici, anche escludendo il cameo di Llinás che ne è una dimostrazione sin troppo lapalissiana; tra vari commenti che assimilano spesso la materia strutturale del film e le sue immagini al mondo degli stereotipi hollywoodiani e il momento in cui un paio di spie per camuffarsi costruiscono una vera e propria sceneggiatura, in realtà il più assurdo e affascinante dei momenti metacinematografici è alla fine dell’avventura di Giovanna d’Arco: mentre l’esposizione delle immagini muta ipercinetica, con l’effetto sonoro direttamente dalla cinepresa che è stato lasciato in montaggio, la Carrea osserva un incontro tra soldati e alla luce delle proprie recenti visioni spirituali si rende conto che sta assistendo alla scena senza prenderla sul serio, come se fosse uno sketch comico. L’illuminazione spirituale, che dovrebbe coincidere con un senso di completamento che possa portare ad un superamento, qua porta la nostra protagonista a rendersi conto della propria condizione di personaggio sovrastato dall’essenza del meccanismo. Ma Llinás può permettersi di andare così in profondità? Fino a questo punto la sua può sembrare una presunzione amatoriale che porta a un divertissement tra i più complessi di tutto il cinema, ma non c’è nulla di rivoluzionario. Da questo terzo episodio, punto di snodo appunto per la profondità dell’operazione, si trae l’informazione che non ci deve essere nulla di rivoluzionario, ma che il gioco funziona alla perfezione come percorso verso un completamento, verso un’universalità. La Flor è il fiore che può sbocciare, che può creare vita, ma per ora è solo fiore, è una serie di semi. Qua comincia il quarto episodio, il più sperimentale e folle nel mischiare autobiografia e favola dell’orrore, e le potenzialità metafilmiche che danno complessità a La Flor vengono mostrate come carte esposte su un tavolo attraverso il racconto di un set, come nella tradizione di film come Effetto Notte, Attenzione alla puttana santa, Irma Vep e Why don’t you play in hell?.
Qua le quattro ragazze hanno tre ruoli separati, ma appaiono molto meno che nei primi tre episodi. Il vero protagonista del quarto episodio de La Flor difatti altro non è che La Flor, in una sua dimensione parallela di narrazione in cui si chiama La Araña, “il ragno”. Le attrici sono le stesse, il regista però non è Llinás ma un suo grosso e rozzo alter-ego che in un momento di crisi dal set decide di liberarsi delle sue attrici, ‘brujas’ (ovvero “streghe”) con cui non riesce più a convivere. Comincia a filmare gli alberi, e Llinás attraverso di lui costruisce una specie di tesi su come gli alberi dovrebbero essere filmati. L’accumularsi di informazioni a riguardo finisce per confluire in un’altra storia, in cui le attrici sono davvero ‘brujas’, ma il regista scompare, e appare un nuovo protagonista, un tale di nome Gatto che comincia a indagare. I dati che appaiono nelle sue investigazioni sono talmente tanti che la non-storia dell’altro Llinás diventa solo un’altra delle storie raccontate da Llinás, in cui l’elemento fantastico si coniuga col citazionismo (da Häxan a Christine fino a Misery, K-Pax e agli X-Files). Attraverso il Gatto e l’incrociarsi dei “diari di uomini soli” che si forma tra questi e il regista nel loro dialogo non comunicante e unicamente espresso per parole scritte digitalmente, si crea un albero di connessioni teoriche e pratiche che espandono l’universo creando ormai non solo una sequela di storie ma anche un inscatolamento metafisico delle stesse storie. Le attrici de La Flor interpretano una versione doppia di loro stesse, ma anche i loro personaggi in una storia “inscatolata” che però non verrà mai davvero ripresa e filmata fino in fondo, e poi interpretano le uniche donne che Casanova non è mai riuscito a sedurre in un viaggio interiore sdoppiato tra Llinás e Gatto sull’analisi di cosa sono queste donne. Dalla conflittualità, pur umoristica, che si trae dal quarto episodio, di gran lunga quello che più si presta ad analisi linguistiche e strutturali di una certa profondità, ci si tira fuori nel momento in cui la storia sembra suicidarsi all’interno della propria follia di montaggio e di struttura, mantenendo insoluti molti degli pseudo-misteri occultisti attorno ai quali la storia gira. Qua si apre una parentesi in cui sembra di capire finalmente il motivo della reiterazione delle 4 ragazze in tutte le storie, con una serie di riprese progressivamente più intime, anche fisicamente, che sembrano descrivere alla perfezione il rapporto complesso creatosi col regista. Llinás, nella conversazione sostenuta a Locarno l’ultimo giorno, ha detto che ha voluto fare con le quattro attrici la stessa cosa che ha fatto Rossellini con Ingrid Bergman in Stromboli, portando in cima al vulcano, al rischio, la “star”; ma, appunto, all’epoca la Bergman era già una star, mentre Paredes, Gamboa, Carricajo e Correa erano e sono delle perfette sconosciute. Le prime tre storie, nel loro galoppante postmodernismo che alterna grezzaggine stilistica a grande raffinatezza concettuale (sempre con quella punta di narcisismo autoironico senza il quale Llinás non riuscirebbe a far respirare La Flor), servono per “costruire” la carriera da pseudo-star delle quattro attrici; ma, giunti al quarto episodio, dopo 6 anni di riprese e quasi 8 ore di materiale montato, la loro iconizzazione è ormai avvenuta inconsciamente nello spettatore, perché sono ormai protagoniste del fiume floreale del tempo che è il macro-film di Llinás. Il gioco stregato e metaforico del regista finisce per distruggere le icone appena dopo averle create, prima decostruendo il loro rapporto con loro stesse e con lui e poi mettendole a nudo, facendole diventare pura manifestazione di un’essenza che altrimenti rimarrebbe fuori campo.
Il finto remake di Partie de campagne parte tanto dal cinema di Renoir quanto, in realtà, dal racconto ottocentesco La scampagnata di Guy de Maupassant da cui il film è tratto. In una lirica e pastorale ricostruzione silenziosa e contemporanea dei meccanismi sentimentali di Renoir, si forma una pausa dalla storia e dal cerebrale, un breve momento di estasi quasi non narrativa che già esprime un ritorno alle origini. Una poesiola per fermare il tempo inesorabile. Il ritorno alle origini però arriva con più prepotenza col sesto episodio, girato con la camera stenopeica, proiettando l’immagine al contrario all’interno di un telone di plastica ricoperto di pelo bovino per sporcare l’immagine oltre l’obiettivo. È una storia western letteraria e universale di fuga dal mondo verso il mondo, in cui le ragazze si uniscono per un ultimo bagno, nuovamente messe a nudo per un’ultima parentesi di separazione rispetto al cosmo. Tra le goffe didascalie, le lenti distorte e il senso etereo e impressionista dato dalle immagini, la melanconica conclusione, vero e proprio addio alla vita di La Flor, rievoca nel contempo Epstein (Finis Terræ) e Sokurov (I giorni dell’eclisse). Ma la vera e propria fine di tutto giunge quando il telone viene tolto e la cinepresa al contrario continua a filmare, mentre si susseguono i titoli di coda per una durata spropositata. Ma questi titoli di coda, ultimo tassello nella sperimentazione a tutto tondo che Llinás adopera per comprendere il cinema mediante la propria chiave goliardica e intellettuale, sono l’addio più importante che il regista può dare agli spettatori che hanno resistito fino alla fine della sua Odissea, dell’immersione macroscopica nell’immensità della dilatazione che è la via giusta per l’inserimento dello spettatore nel meccanismo narrativo. Il lungo piano sequenza si muove con goffaggine intenzionale, inquadrando la solitudine e il commiato, l’abbandono del set e la natura che circonda il set stesso, ormai senza più filtri visuali. Robotico nei movimenti, lo sguardo di Llinás sembra quello del Michael Snow di La Region Central, ma invece di filmare il nulla incontaminato l’autore filma il proprio corpo e la desolazione del post-riprese. Con lo spostamento del tendone, sembra evidente che ciò che abbiamo visto sinora era solo una proiezione, un’immagine invertita, un mondo capovolto. Solo ora vediamo la realtà, distorta, col cielo che compone il suolo e viceversa. All’improvviso nel piano sequenza, l’immagine si re-inverte.
E finalmente La Flor oltre a involontario documentario sulla propria stessa essenza diventa anche documentario sulla fine di se stesso. La sua autoreferenzialità, che per molti può essere irritante, diviene la sua ‘raison d’être’, il gioco si svela come un’esperienza autocannibalizzante. E nel momento in cui si accetta il divertissement e si penetra nelle sue profondità, si può solo continuare a scendere e a farne parte. E non è un riassunto di tutto il cinema, non è niente di rivoluzionario. È un gioco, che prende e non abbandona perché è abbastanza impegnativo da richiedere al pubblico uno sforzo mentale tale da creare una dimensione a parte. Forse, La Flor è un’opera a suo modo multimediale, cinematografica per natura, seriale per durata, installativa per concetto. È sicuro che è un qualcosa di unico e di autoconclusivo, e la sua irripetibilità non è data dalla sua originalità quanto dalla sua prassi anticonvenzionalmente raffazzonata. Llinás non è mai umile, e la sua personalità riempie lo schermo al punto da far completamente parte del gioco. Così, solo alla sua conclusione, La Flor può sbocciare dentro lo spettatore come un qualcosa che concludendosi ha raggiunto il proprio compimento, il proprio senso concreto ma connesso all’astrazione. È così che il gioco supera il gioco, e qualcosa di cinematografico appare. Nell’ambizione, e non nella presunzione, di aver creato un affresco talmente grande e avvincente nella propria prolissità teorica da lasciare un segno indelebile nell’occhio di chi guarda.
Nicola Settis