LA RAGAZZA SENZA NOME (2016), di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Quello che si diceva, ahinoi, è vero: non abbiamo trovato un solo avventore delle proiezioni stampa del Festival di Cannes che ci abbia detto bene de La fille inconnue, ultimo film dei fratelli Dardenne, naturalmente in concorso. Concorso che per due volte hanno vinto, peraltro, nel 1999 con Rosetta e nel 2005 con L’enfant, più un gran premio della giuria portato a casa per Le gamin au vélo nel 2011.
Il fatto è che i Dardenne sono un certezza per i critici e per i cinefili, ma c’è il sospetto che lo siano diventati anche per se stessi: questo film conserva tutte le caratteristiche dei cineasti belgi, lo stile è intatto, la narrazione è ellittica, la camera a mano del fedelissimo e sempre sublime Denis Marcoen continua a pedinare i protagonisti con la solita asciuttezza formale, e c’è coerenza anche dal punto di vista tematico, perché l’attenzione per le dinamiche sociali e alcuni ingranaggi invisibili che le compongono è conservata. E continua anche il discorso attorno alla figura femminile, anche qui protagonista, anche qui particolarmente fragile, complessa, assalita dalle incertezze, andando ad arricchire un mosaico che comprende già le imponenti figure di Rosetta, di Lorna, di Sandra (la Marion Cotillard di Deux jours, une nuit, 2014).
Ne La fille inconnue si parla di Jenny, giovane medico di base a Liegi. Una sera, oltre l’orario dello studio, bussa qualcuno al citofono: il suo tirocinante, Julien, vuole rispondere, ma lei gli chiede di non farlo, perché si è fatto tardi: “Se fosse stato urgente, avrebbe bussato una seconda volta”. L’indomani mattina, la polizia chiede a Jenny le registrazioni della telecamera di sorveglianza: una ragazza, proprio quella che aveva bussato la sera prima, è stata trovata morta sul lungofiume proprio là di fronte. Trasformandosi in una declinazione d’autore di una detective story, una specie di Dalia Nera senza hard boiling, il film dei Dardenne comincia a raccontare l’indagine di Jenny, naturalmente parallela a quella della polizia, snodandosi fra alcuni pazienti di cui lei sospetta e arrivando a scoprire l’identità della ragazza uccisa, la cui etnia e la cui professione servono da dispositivo per una critica, stavolta poco graffiante, eccessivamente diluita nella prolissa investigazione, delle politiche dell’immigrazione in atto oggi in Europa.
Adèle Haenel, che interpreta Jennym è brava e dardenniana in tutto, sa mostrarsi ragazza “normale”, un colore perfettamente intonato nell’affresco neo-neorealista dei fratelli nei suoi sensi di colpa, nella sua fragilità, nei suoi dubbi.
Eppure, qualcosa annoia, qualcosa non torna, qualcosa sembra di maniera, quasi forzato, e non si attiva la medesima empatia che abbiamo potuto provare, ci ripetiamo, per la Sandra della Cotillard; il problema in questo caso supponiamo sia di scrittura, forse il film è lungo, e forse alcune situazioni si ripetono in maniera insistente, poco calibrata, insomma, non essenziale: si pensi, per tornare alle ellissi, all’agilità con cui vengono gestiti i tempi narrativi nella prima parte del film, laddove nella seconda parte sono molti i momenti in cui la storia sembra ristagnare.
Nonostante tutto questo, gli amanti dei fratelli Dardenne troveranno comunque pane per i loro denti: parliamo di un’opera comunque sopra la media, ma, considerato il coefficiente di stupore che sistematicamente ci hanno provocato i film precedenti, allora stavolta ci si alza con meno tremolii. Il finale, comunque, si assesta sulle solite vette.
Elio Di Pace