Dice lo stesso Patricio Guzmán, riflettendo sulle Ande: «It’s an important wall. You can’t escape it anywhere. Not in Santiago or any part of the country. I think this wall contributes to the loneliness, the depression, the confinement that Chileans live with — and have always lived with, even before Pinochet. There’s a way of being in Chile that is conditioned by this enormous, endless wall. Chile is a closed-off country, a narrow valley, and that has shaped our way of being, which is completely different from that of the Argentinians. Ours is a country twisted towards sadness». Ed è proprio da qui, da questa impossibilità di scappare dal “muro” naturale, che riparte il viaggio continuo dello straordinario autore cileno tra gli elementi di questa (sua) terra, di questo (suo) “Paese ritorto verso la tristezza”. Un viaggio che, dopo aver coinvolto la luce e l’acqua, ora riflette le rocce come i ghiacci, come un resoconto della presenza e della sua frammentazione attraverso la bellezza austera e silenziosa della cordigliera andina. Presentato fuori concorso a Cannes72, La Cordillera de los Sueños è l’ennesimo prodigioso percorso guzmániano di dispersione e condensazione di elementi, fra il pubblico e il privato, fra il dramma e la bellezza, fra il vuoto e il caos; un transfert tra la struttura della catena montuosa, che si pone tra terra e mare, e la vita dello stesso autore. Una metafora continua e stratificata che ridiscute le rovine di un passato (tra cui la sua casa natale) e il desiderio del futuro attraverso un’incertezza vorticosa del presente. Mentre, a fondo-campo, si stagliano inesorabili quelle montagne uniche e impossibili, patria ideale di un’identità oramai sconosciuta, immaginate e (quasi) mai viste, rigorose e distanti dal farsi della Storia; una stretta lama che divide il continente e l’oceano, che influenza la natura e affascina l’uomo, che conserva risposte a domande ormai nascoste.
La memoria si fa materia, dunque. La sublime rappresentazione (aerea, espansa, sterminata) della cordigliera sconfina sulla scatola dei fiammiferi casalinghi come nelle stazioni della metro di Santiago. Guzmán deforma l’immagine, associa alla stratificazione geologica della montagna le arterie pulsanti della metropoli, agli infiniti spazi degli altipiani deserti la claustrofobia della vecchia reggia dittatoriale, alla libertà dell’esistere le pendici delle vette con il devastante liberalismo selvaggio – legato alla Scuola di Chicago – che distrusse (e ancora distrugge) il tessuto sociale cileno. Nella sua semplicità di stratificazione Guzmán mostra una lucidità impressionante, che aggiunge ulteriori preziosi tasselli alla sua riflessione – e a quella, necessariamente adiacente, dei due precedenti Nostalgia de la luz e El botón de nácar – nel traslare il discorso della rappresentazione anche a coloro che le Ande le vivono, le guardano e le ricostruiscono nei media e nell’arte. Tra le testimonianze filmate – il pittore Vera, la cantante Parra, gli scultori Gacitúa e Gajardo, lo scrittore Baradit – spicca, senza dubbio, quella di Pablo Salas. Un filmmaker, proprio come allora lo era Guzmán (un alter-ego?), catalogatore e custode in migliaia di VHS e nastri magnetici della memoria di quel Paese. Non fuggì lui ai tempi di Pinochet, e spesso la sua macchina da presa è curiosamente (?) dalla parte “cattiva” della barricata, ma questo Guzmán non lo mette mai in discussione, come se l’archiviazione e la sua conservazione fossero più importanti dell’atto stesso di filmare la Storia. E si entra così in un’altra forma di stratificazione, che passa da quella spaziale a quella temporale con frammenti di cariche e di lotte che si susseguono fino ai giorni nostri con la stessa drammatica reiterazione estetica e politica. Tutto cambia, ma nulla si trasforma.
Scarti di un’illusione (o forse di un’utopia) collettiva di ieri come dell’oggi, siamo al cuore di quella calcificazione organica della roccia, l’elemento pulsante di questa forma. La riconciliazione rimane impossibile, al cospetto di una memoria fluida e melmosa che mai potrà realmente contenere la verità indecifrabile di un passato continuamente proteso verso un presente caotico e un futuro incerto. Questo viaggio ellittico dagli infiniti e distanti punti di vista e prospettive, fra campi lunghissimi e interni claustrofobici, riprese aeree e fisse gelide, meraviglia incapsulata della natura e struttura futurista della città, definisce lo scorrere di un tempo che corrode ma non copre le ferite, amplificando a dismisura la dimensione della realtà possibilmente indagata. Questa deriva rigorosa e lirica appare quindi come un enorme specchio di riflessioni e rifrazioni, campi e controcampi fossili di elementi che, caduti dal cielo, attraverso l’acqua si sono ora ri-solidificati. La struttura monolitica e straordinaria della metafora di Guzman diventa così granitica ma dialettica; costruita, nella sua unità, dalla forma degli infiniti tasselli che l’hanno composta (e che, naturalmente, la continueranno a comporre). Forse unicamente con questa drammatica e disarmante lucidità, postulando all’esterno ciò che nell’anima della Storia – e di chi la vive/subisce – non può che essere interno, si ha la possibilità di intraprendere un percorso di ri-scrittura così amplio e deflagrante. Nella memoria delle rocce c’è il seme del mondo, nell’aggregazione di atomi ed elementi c’è la legge della vita, negli errori con cui si è scritta l’origine dell’universo c’è l’unica nostra possibilità di stare (ed essere stati) qui. Ed ecco che questo terzo atto, quasi cosmogonico, della riflessione di Guzman sulla Storia del proprio Paese diventa improvvisamente ineffabile ed espanso a dismisura, siderale, apparentemente algido eppure così vivo e umano. Un’altra stratificazione, l’ennesima, che acquista di senso solo pensandola, citandola e scrivendola più volte. All’infinito. Verso l’infinito.
Erik Negro