LA CONCENTRATION (1968), di Philippe Garrel
È lo stesso Philippe Garrel a dividere il suo cinema fragile e romantico di coppie, figli, interiorità, amori e inusitata intensità emotiva in quattro periodi, dalla sperimentalità godardiana degli anni Sessanta all’underground del decennio di tormentata e totalizzante storia d’amore ed eroina con Nico, e poi dalla svolta narrativa degli anni Ottanta all’ultima e attuale fase di “ritorno al dialogo”. Ed è lo stesso Philippe Garrel, che nel 1970 distrusse personalmente l’unica copia del suo primissimo Une plume pour Carole, girato a soli 14 anni in 16mm, a fare in modo che parte dei suoi primi film non vengano (quasi) mai mostrati. Forse perché convinto che non possano più essere capiti, che non possano più “funzionare” al di fuori da quel ribollire (pre)sessantottino, che non possano più toccare quelle stesse corde interiori che la società ha smesso di far vibrare, o forse, ancor più intimamente, per il suo non volere tornare nemmeno con le immagini e i ricordi a un passato doloroso, fatto non solo di situazionismo, metateatralità, sesso, droghe, politica, avanguardie artistiche e collettivi, ma anche di quelle stesse dipendenze e di quelle stesse inquietudini portate sullo schermo che ben presto lo avrebbero trascinato fino al ricovero coatto e al ben poco umano elettroshock, segni di pazzia e (La) cicatrice intérieure di un’intera esistenza. Solo una richiesta esplicita allo stesso Garrel di “monsieur Nouvelle Vague” Jean-Pierre Léaud poteva in questo senso “sbloccare” e far uscire dagli archivi più blindati della Cinémathèque Française per una singola e imperdibile proiezione al 37mo Bergamo Film Meeting La concentration, forse il più raro fra i primi lavori del regista parigino, forse il più amaro, forse il più duro, forse il più tormentato, forse il più dolente, realizzato a vent’anni appena compiuti con la maturità del maestro e con l’estremismo dell’episodio psicotico. Un film leggendario e assoluto, metaforico e simbolico, radicale e politico, astratto e viscerale, srotolato nei 35mm della copia restaurata nei primi Duemila e che solo una volta prima di oggi – nel 2017 al Lincoln Center di New York e sempre per iniziativa di Léaud – era stata fatta scorrere fra gli ingranaggi di un proiettore. Un film diverso da tutto, concepito e girato proprio nel 1968 in 72 ore consecutive chiusi dentro a un piccolo teatro di posa con due ambienti minimali, un letto, un carrello a mezzaluna e robuste scorte di LSD per tutta la piccola troupe, a far confluire l’attesa esistenziale di Sartre, Camus e soprattutto Beckett nell’influenza politica di Brecht e nei conflitti intimi di Bresson, Bergman e Rohmer, ma anche nell’assoluta centralità del corpo “qui e ora” di Artaud in una performance continua e totale, sfiancante, drastica, profonda, unica, irripetibile, al contempo strafatta e lucidissima.
Bastano due attori, Jean-Pierre Léaud e la magnetica Zouzou, come due corpi androgini in mutande e canottiera, il microfono appeso al collo con il lungo cavo che scorre lungo i loro fianchi e le loro gambe a ricordare loro che ci sarà qualcuno ad ascoltarli, il loro trascinarsi a fatica strisciando sul carrello fra il caldo e il freddo dei due opposti del set, oppure il loro sdoppiarsi e chiamarsi da soli per discutere sui propri dubbi di identità. Basta una macchina da presa che dichiara espressamente la sua presenza e la sua invadenza in quanto “spettacolo” e sguardo dello spettatore, in quando metafora con cui apertamente dialogare, in quanto causa e al contempo cura del malessere, come un coltello in 35mm che è anche il cerotto con cui tentare di suturare una (falsa) vena tagliata dallo stesso dispositivo. Basta, appunto, una sola e minuscola stanza/prigione di (auto)tortura e affannosi dilemmi, da una parte gelida e dall’altra rovente con in mezzo un letto, l’uomo, la donna e il Sessantotto, simbolo dell’Olocausto fra i rubinetti di sangue che ricordano il gas delle docce, la morte del (non) bambino e il fuoco eterno del «crematorio». Basta uno specchio mobile con cui poter replicare ogni brandello di carne e dell’anima all’infinito, basta un dispositivo che diventa consapevole oggetto di scena, bastano i graffianti colori dei tagli di luce a scalfire le tonalità neutre e basta una linea essenziale di inquietudine, di disagio e di lucida follia in un progressivo e inevitabile stancarsi, in un progressivo e tossico aumento della sensibilità e della pressione, in un progressivo immedesimarsi nei personaggi e nelle loro psicologie (primo) ciak dopo (primo) ciak. Il risultato è un intenso e spiazzante capolavoro di linguaggio, esistenzialismo e teoria del cinema, sorta di psicodramma largamente improvvisato – e in tal senso non può che venire in mente la recentissima riscoperta del Rossellini che si credeva perduto – che assurge a singolo e irripetibile evento artistico e umano, a vero e proprio rito di rappresentazione e riappropriazione attraverso cui penetrare a fondo nei propri meandri per esorcizzare la violenza, l’oppressione sociale e il dolore personale e di coppia. Un miracolo libero e potente di forme cinematografiche e di performance attoriali spinte all’estremo, fatto di contrasti cromatici e fotografici, ossessioni, angoscia, timori, paranoie, disturbi, dominanze, sottomissioni, lacrime e pazzia fino all’inevitabilità della morte, in cui le ancestrali riflessioni e le emozioni contrastanti deflagrano attraverso la teatralità, le isterie di carne, i dialoghi interiori e il minimalismo simbolico degli spazi scenici, tanto claustrofobici quanto è abissale la profondità dell’esperimento.
La concentration è «una stanza che affonda nella carne». La concentration è il significato, è il linguaggio, è la comunicazione, è il corpo, è la voce, magari disturbata e resa meccanica e metallica dall’eco impossibile di chi non si capisce e non si capirà mai più. La concentration è la sensazione, è la passione, è il sangue, è il coltello che taglia la corda che lega i due protagonisti per trasformarla sin da subito in un cappio che «potrà essere utile», è quel senso di amara frustrazione che emerge proprio quando dovrebbe esplodere la gioia – «Ha fatto cose con il mio corpo e ne è rimasto imbarazzato». La concentration è il rimanere bloccati come mimi di fronte a barriere invisibili, quelle dell’intimo, quelle dei rapporti di coppia, quelle delle parole, quelle del metacinema, quelle di chi ha paura della violenza sociale e culturale che si sta combattendo al di fuori della stanza e del campo e quasi preferisce lasciarsi intrappolare dal caldo, dal freddo, dall’oppressione, dalla disperazione, da se stesso, ormai incapace di aiutare e di aiutarsi. La concentration è una condizione esistenziale, imprigionati e incapsulati nello spazio e forse anche nel tempo, nelle fobie, nel dolore, nell’egoismo, nell’autodistruzione di una siringa appesa al muro come un’edicola votiva a cui rivolgersi oppure di un figlio immaginario – il più classico bambino “deleuziano” di Garrel – concepito e ucciso nel giro di un’instante di incomunicabilità, in una lacrima di trucco che solca le guance, in un ritrovarsi soli e increduli quando il gioco dell’amore diventa una nuova corda, un respiro affannoso, e poi il turgido e gelido immobilismo della morte. La concentration è un continuo e vano tentativo di ascensione che sempre torna sullo stesso letto, è un monologo a occhi bendati, è un’intera vita dalla nascita alla morte, dal buio alla luce fino alla nebbia, è un Purgatorio anticamera non del Paradiso, ma della dannazione, o per lo meno della disperazione, dell’avvilimento, dell’umiliazione. È un riuscire a rompere a mani nude le sbarre visibili della propria condizione solo per rendersi conto che ce ne sono altre invisibili e impossibili da rompere, che la claustrofobia non è finita e probabilmente mai finirà, che la progressiva devastazione non è evitabile, non è arginabile, ma la si può solo esasperare, persi e abbandonati alla sua forza distruttrice.
Per quanto pressoché contemporanei, non sono (già) più le pure immagini mute di Le révélateur, non sono (già) più la macchina a manovella e la fotografia emotiva che non hanno bisogno di sonoro. Esattamente al contrario, anzi, e pur consapevole della necessità dei silenzi nella sua atterrita comunicazione non verbale, La concentration vive della sua centralità della parola. Léaud e la bella Zouzou, dalla culla della loro condizione iniziale al letto che continua a legarli, dalle stanze che li separano all’ultimo carrello verso il «crematorio» di quando è ormai troppo tardi, costantemente urlano, sussultano, estremizzano, si rifiutano, accorrono, si amano, si odiano, si liquidano, si aggrediscono, si parlano, gemono nel microfono, lo strisciano sugli ambienti passando incessantemente e disperatamente da una stanza all’altra, da un estremo all’altro, da un dolore all’altro, progressivamente distorti, disturbati, gracchianti, doppi, insicuri. Si confessano di fronte alla macchina da presa, indagano lo spazio, rompono la quarta parete e guardano – inconsapevoli di quella che sarà la quasi invisibilità del film nel successivo mezzo secolo – il pubblico negli occhi, mentre riflettono sull’umiltà e sui narcisismi dissimulati negli eventi del tempo, si separano, si ritrovano, si distruggono, e poi inevitabilmente si perdono nei confronti interiori con il proprio ego, fra la lampadina che chiama l’uomo all’appuntamento con il suo doppio/coscienza (che poi nient’altro è che dare una nuova carnalità alla voce fuori campo) e quel simbolo dell’infinito tracciato sul muro che sostituisce ogni possibile domanda sull’esistenza. Già, l’infinito, perché non ci saranno mai risposte definitive, non ci possono essere, ma rimarrà sempre il dubbio a crescere e ramificarsi in un crescente e mortifero smarrimento, nero come il carbone in cui finiranno per disilludersi, sporco come si sporcano le loro vesti nel procedere delle riprese. Indefinito, sbigottito, disorientato, ammaliato, impaurito, distratto e poi distrutto nel sangue che cola dai tubi, immaginato (dal personaggio di Zouzou così come da Garrel) e scopertamente messo in scena. Lo stesso sangue di chi da un abbraccio si ritrova, nel progressivo allargarsi del quadro, a spintonarsi, a picchiarsi, ad assalirsi a vicenda fino a strappare dal collo di Léaud quel microfono che è essenza stessa dell’atto cinematografico, l’avere un pubblico, il potersi far sentire, la consapevolezza della riproducibilità dell’istante. Forse è odio, forse è amore, forse è un gioco, forse è vita, probabilmente è la frustrazione anticamera della tragedia, della disperazione, della definitiva perdita della voglia di vivere di fronte a lei che non vive più, e di certo è cinema, puro, inedito, profondissimo, emotivo, esperienziale. In attesa che giunga per l’ultima volta quel fumo di nebbia e gelo, per molti versi già lynchiano, a nascondere del tutto la chioma fluente di Léaud, il suo braccio a penzoloni ormai esanime e immobile, il suo essersi definitivamente abbandonato. Come una cavia, consapevole nel farsi rinchiudere e inoculare il virus (o meglio la medicina) del Cinema per lasciarlo libero di crescere, nascere, evolversi, e se necessario anche morire. Fino al successivo motore che lo riporterà in vita, fino al successivo set, fino al successivo brandello di Storia e di cuore scritto su emulsione, con il suo leggero odore degli acidi di sviluppo, con le sue quattro perforazioni per fotogramma, con i suoi 24 impercettibili istanti che il mascherino, due lampi alla volta, incornicia nel bordo precario di ogni secondo. Con il suo buio in cui immergersi completamente, senza resistenze, fino a ritrovarsi a bocca aperta, con gli occhi lucidi, ancora una volta genuflessi. Sentendosi quasi in colpa per la consapevolezza di non aver meritato in alcun modo il privilegio di aver visto, sofferto e amato un’opera d’arte così grande, così preziosa, così peculiare, così totale, così introvabile. Un diamante grezzo di genio, sregolatezza e di sfavillante, tersa, limpida, sagace follia.
Marco Romagna