«Là sotto ci sono cose che non sono fatte per gli occhi degli uomini, ma delle anime». Tanto che può bastare il contatto con l’aria fresca, dopo secoli rimasti sottovuoto, a fare istantaneamente seccare e cambiare colore alle pitture rupestri e agli affreschi, come a testimoniare l’impossibilità dei vivi di vedere realmente ciò che è solo per lo sguardo dei morti. Un qualcosa che non può avere valore né prezzo di mercato perché il suo senso è un altro, ed è giusto riconoscerlo e rispettarlo. È per questo che Arthur, tombarolo inglese di stanza nella Maremma degli anni Ottanta con il dono di riuscire a sentire il vuoto e riuscire così a localizzare i sepolcri antichi e i corredi funebri rimasti celati per secoli, deciderà di gettare il tesoro più inestimabile sul fondo del mare. Una testa in marmo che avrebbe completato la più rara e preziosa fra le statue etrusche “rubata” alla sua squadra da altri tombaroli, e che la macchina da presa di Alice Rohrwacher segue nel suo viaggio verso il fondo delle acque e il nuovo nascondiglio da sguardi indiscreti con una strabiliante soggettiva del manufatto, dalle increspature delle onde e dalla barca che ancora si staglia subito sopra sempre più verso il buio, sempre più verso la notte eterna, sempre più verso il rispetto spirituale per ciò che quella testa rappresenta. Forse, insieme al già citato effetto dell’aria e della luce sui muri dipinti, la migliore fra le intuizioni formali de La chimera, con cui la regista italiana torna ancora una volta alla sua autorialità inconfondibile e al suo indiscutibile talento nella messa in scena con un campo e controcampo che mette finalmente a contatto i vivi e i morti, un mondo e l’altro, una mistica e l’altra. Eppure questa volta, tanto vale dirlo subito, solo a intermittenza il suo cinema riesce ad affascinare come nelle tre sortite precedenti, meno magico nel suo realismo, meno vibrante nel suo ritorno a un mondo passato, e paradossalmente, a dispetto della sua ostentata autarchia formale fra l’Academy ratio del 35mm, i mascherini stondati del Super16 e il 4/3 graffiato delle malinconie in Super8, ma anche i capovolgimenti con cui riflettere su quale sia il verso da cui guardare la storia e la Storia, gli sguardi in macchina con cui i protagonisti si alternano a raccontare la loro verità, le accelerate di piena furia slapstick con l’albero/nascondiglio in mano o ancora gli splendidi istanti di comunicazione non verbale in un «corso accelerato di italiano» di posture dei corpi e tipiche gestualità, meno libero. In qualche modo ingabbiato da una struttura narrativa dall’arco lungo ed episodico che, fra ellissi di mesi o anni, sequenze oniriche ridondanti e un po’ didascaliche e troppi personaggi lasciati lungo la strada, non sempre sta del tutto in piedi, e che finisce alla lunga per tarpare le ali ai «voli imprevedibili ed ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometrie esistenziali», come canta Battiato ne Gli uccelli pronti a volteggiare sui titoli di coda, che il film e Alice Rohrwacher vorrebbero prendere.
Sia ben chiaro, non è certo un “brutto” film La chimera. Al massimo un film “non del tutto riuscito”, nonostante almeno a tratti sia più che evidente la sua grandissima ambizione e la grande capacità della regista di portarla sullo schermo, e non manchino istanti di pura meraviglia cinematografica. È solo in definitiva un po’ troppo ondivago, dilatato, e a volersi inoltrare nell’analisi meno profondo di quanto prometterebbe, non realmente interessato a ragionare sul senso dell’antico e dell’archeologia, ma solo a sfruttarla come metafora di una porta fra i mondi. La parziale delusione viene da aspettative che, di fronte all’ascesa autoriale di Alice Rohrwacher e a ciò che ha già più volte dimostrato di saper dipingere sullo schermo, era più che lecito innalzare, tanto più di fronte alle aspirazioni cristalline di un film che sin dalla primissima inquadratura di luce e buio inizia a cercare l’incrocio degli sguardi fra la vita e la morte. A cercare, per dirla ancora con Battiato, di cambiare «le prospettive al mondo», e magari di ribaltare «le regole assegnate a questa parte di universo». Da una parte Arthur, addormentato nel suo ritorno in treno dal carcere, fra compagni di viaggio curiosi e incubi che lo tormentano come un vuoto impossibile da riempire, e dall’altra lo sguardo ormai perduto della sua Beniamina, che quasi come un (falso) footage di Pietro Marcello (con cui Alice Rohrwacher ha co-diretto, insieme a Munzi, Futura) si staglia sul fondo delle sue retine. Forse è proprio lei, la chimera a cui Arthur non riesce a smettere di anelare, il vero motivo del suo scorrazzare per le tombe cercando costantemente un contatto con la morte, o forse sono chimere le sue visioni, i suoi malesseri fisici in prossimità di ogni sepolcro, il suo rabdomantico sentire il vuoto della morte, così vicino forse proprio perché identico a quello nel suo cuore. Al suo bisogno spirituale e sentimentale di localizzare le tombe per avvicinarsi alla sua defunta amata, per passione, per mistica, per cercare una porta verso l’Aldilà, ben oltre le banconote ricevute in cambio e senza curarsi del suo vestito bianco che diventa progressivamente sempre più lurido e sgualcito. Ben oltre il suo comportamento arrogante e a tratti cafone, e ben oltre le resistenze che pone il suo cuore. Del resto, tutti sembrano inseguire una qualche personale chimera. La insegue (finché è in scena, prima di essere inspiegabilmente quasi dimenticata) la Donna Flora di Isabella Rossellini, madre di Beniamina e suocera di Arthur che sembra l’unica ancora convinta che prima o poi la figlia possa in qualche modo ritornare, come una divinità etrusca, dal regno dei morti. La insegue Italia, sua discepola di canto ma più probabilmente sua (in)consapevole serva, che proprio come le tombe nasconde i suoi tesori – due figli di cui nessuno sa nulla – e li protegge da sguardi indiscreti. La insegue probabilmente anche “Spartaco”, ricettatore di tesori archeologici e trafficante d’arte che dal completo incognito si scoprirà poi avere il volto di Alba Rohrwacher, e di certo inseguono una chimera, se non altro economica, tutti i tombaroli amici e compagni di scavi e di furti all’aldilà (ma anche allo Stato che, con la stessa eventuale “colpa” mistica dei profanatori, considera i manufatti ritrovati di sua proprietà) del protagonista. Fino a rendersi conto che la insegue anche un film, presentato come ormai d’abitudine per l’autrice nel concorso principale del Festival di Cannes per quanto l’uscita nelle sale italiane sia stata calendarizzata addirittura per il prossimo inverno, che come si diceva solo a tratti sembra riuscire a trovarla. Certo, rimangono negli occhi i lampi e i momenti di qualche ottima intuizione visiva e linguistica, rimangono il talento e una grandissima coerenza autoriale (gli anni Ottanta, l’antico senza tempo che si ritrova di fronte alla modernità delle ciminiere, la grande cura fotografica e formale, la costante ricerca dell’«incantesimo» o magari dell’amore), e rimane un magnifico finale di fili rossi fra i mondi e nuovi (im)possibili incontri finalmente felici, che fa pensare a come sia paradossale che Alice Rohrwacher questa volta trovi il meglio in quello che era sempre stato il suo piccolo punto debole, la chiusura delle sue storie, perdendo invece lucidità sulla costruzione di un mondo affascinante e fuori dal tempo che era sempre stata la sua caratteristica più conclamata. Ma non può bastare per convincere del tutto, purtroppo. Accontentarsi sarebbe in qualche modo fare un torto a Corpo celeste, a Le meraviglie, a Lazzaro felice, ma pure al breve Le pupille che l’ha trascinata fino alla notte degli Oscar e sull’Olimpo della contemporaneità. A quello che l’autrice sa e può fare, e che ben presto tornerà a fare al meglio.
Marco Romagna