È quasi sempre avvolta da una penombra crepuscolare, La casa dell’amore. Una casa senza corrente, con pochi raggi di sole a filtrare fra le persiane costantemente chiuse e con qualche candela come unica fonte luminosa. Una casa sempre abitata eppure sempre vuota, una casa porto di mare eppure emblema di solitudine e mancanza. Una casa di oggetti e di poster sui muri, una casa di desideri legittimati e di amiche a cena, una casa di feste e di profondissima malinconia. Una casa, la terza e ultima della Trilogia dell’Appartamento di Luca Ferri, che è lavoro e prigione, talamo e specchio, identità e feticismo. Una casa che è routine e unico (possibile) habitat, una casa che è storia personale e lento cambiamento di un seno che si gonfia, una casa che è ormoni e attesa di quell’amore di una vita lontano da oltre due anni, ma sempre presente in ogni pensiero, in ogni assenza, in ogni lunga telefonata in portoghese, senza che il tempo né la distanza né il viavai di clienti più o meno abituali abbiano mai scalfito nemmeno un briciolo del sentimento. Stanno insieme da oltre vent’anni, Natasha e Bianca Dolce Miele. Entrambe transessuali, entrambe nate donne nel corpo di un uomo, entrambe prostitute. Entrambe sole in mezzo ai tanti clienti, una temporaneamente in Brasile per motivi familiari, e l’altra nell’appartamento milanese di Quarto Oggiaro in cui Ferri, dopo l’ora di Dulcinea e l’anno di Pierino, la (rimette in scena e la) filma nello spazio narrativo di una settimana. Forse davvero l’ultima settimana di attesa prima che Natasha torni alla porta, o forse solo l’ennesima illusione fra i più disparati e perversi feticismi dei clienti, il lavoro quotidiano per farsi bella e ricevere chi la vuole nella sua casa dell’amore, e il telefono come unica e fondamentale finestra sul mondo esterno – lo stesso regista bergamasco ha trovato la sua protagonista chiamando il numero pubblicato sugli annunci erotici. Bianca si prepara, si veste e si spoglia, si depila, si trucca. Le basta una mezzoretta di preavviso per essere pronta, per svestire le più squallide tute da casa e indossare tanga e reggiseno di pizzo, per essere pronta a prendere e a dare, a sudare e a parlare, ad accontentare e ad accontentarsi, magari affezionata a una clientela di lunga data, ma sempre e solo affamata e assetata, nella pletora di corpi e di carnalità meretrice, del cuore di Natasha.
Non sono più il 16mm, la pura finzione e il corpo suadente della donchisciottesca donna ideale immaginata in giro per la casa dal protagonista feticista. Non sono più il VHS, il puro documentario e la mania del cinefilo Pierino in cui Luca Ferri aveva scoperto sempre più di specchiarsi fino ad aprire la prima crepa nel suo sempre glaciale rigore cinematografico con un’affezione per molti versi impensabile. Ma, anche nel digitale HD e nel cinema del reale con la calva prostituta transgender Bianca Dolce Miele disposta prima ad aprirsi e poi a rimettere in scena la propria quotidianità, sono ancora i 4/3 l’unico possibile formato per le ossessioni e per i desideri più o meno depravati che riempiono gli appartamenti della Trilogia, con gli archetipici clienti che definiscono con le loro richieste più e meno bizzarre e patologiche il suo ruolo di prostituta. C’è chi ama indossare le calze a rete sotto l’abito da uomo e chi invece che sesso vuole il solletico con le piume, c’è chi cita la Bibbia e chi non toglie tempo alla fornicazione, c’è chi la interroga su gusti e masturbazioni e c’è il (geniale) misantropo che nella scena più irresistibilmente spassosa del film, apparecchiata la transessuale come una bianca tavola di redenzione autodefinendosi «il tempo morto di un film porno», trangugiando Tavernello e paragonando la sofferenza del taglio di capelli alLa dreyeriana (Passione di) Giovanna d’Arco al «pompino avariato» di una Lilli Carati disgustata dalla sua forzata seconda parte di carriera, oppure il petting senza penetrazione all’attesa leopardiana de Il sabato del villaggio, racchiude in una personalità (e in una voce, e in una parlata, e in una psicosi) dichiaratamente morettiana tutto il cinismo chirurgico del Luca Ferri che fu. Già, che fu. Perché con La casa dell’amore, che Ferri voglia ammetterlo o meno, procede il processo di umanizzazione (e crescita) di un regista sempre preciso ma (finalmente) non più freddo ed entomologico come un tempo, mai giudicante nemmeno nei ritratti più impietosi e finzionalizzati, ma anzi disposto a “cedere” a qualche movimento di macchina, a una singola leggerissima sfocatura che in qualche modo rende più sincero l’intero progetto, e ad almeno un paio di inedite e purissime pennellate poetiche con la mancanza che il diventa linguaggio cinematografico del finale che prima negherà l’audio e poi il video, e soprattutto con quelle sigarette accese a cerchio per gli assenti mentre si versa amorevolmente lo spumante per chi non c’è, ma prima o poi tornerà.
Perché nasce da un rapporto vero e sincero La casa dell’amore, in prima mondiale nel Forum della 70ma Berlinale. Nasce da lunghi mesi di frequentazioni, di conoscenza reciproca, di rispettiva fiducia. Nasce in primo luogo dalla disponibilità ad aprirsi e dalla disponibilità ad ascoltare, a capire, e solo successivamente a intervenire nella scrittura e nella messa in scena del vero, fra i clienti di ogni giorno e le schegge del passato che emergono nelle opere/Frammenti d’amore di un padre artista, l’attesa paziente e sinceramente innamorata del ritorno di Natasha e l’organizzazione della festa per il suo ritorno. E ovviamente nasce dallo spazio, da quella casa in cui essere sempre presente e disponibile, da quel luogo in cui coincidono vita e lavoro, presenza e assenza, passato e futuro, mentre il presente è solo una sospensione, un trascinarsi, un aspettare e coltivare la propria femminilità. Una casa che è specchio della solitudine della protagonista, limitazione e costante relazione spaziale, e senso ultimo della mappatura “immobiliare”, perversa, autoanalitica e ossessionata dall’ossessione e dalla pulsione, di Luca Ferri. Forse mai così smaccatamente comico e divertente nel suo rimestare nell’assurdo e nel sessualmente scorretto, ma mai irrispettoso, macchiettistico o indelicato nel suo affrontare tematiche LGBT. Anche nei ritratti più impietosi (rigorosamente dei clienti, e mai di Bianca), Ferri non è mai cinico, ma mette in scena, esacerba e ridicolizza quasi mareschianamente le sue personali perversioni come autoanalisi e catarsi. Non serve andare a indagare nella vita precedente di Bianca, non serve scavare nella sua psicologia, e servono pure meno regole del solito nel filmarla. Basta seguirla nel suo continuo prepararsi per il cliente successivo, nella sua scelta delle scarpe, nel suo preciso lavoro di rasoio e trucco, nel suo costante pensiero per l’amore che sta per tornare. Basta guardarla nella sua casa, fra i suoi oggetti, fra i suoi ricordi, profondamente immersa nella sua identità. Statica, immobile, eppure in costante evoluzione, come il suo corpo che cambia ma ha ancora il pene, come i suoi clienti che si avvicendano fra chi canta a pieno petto la canzone per una prostituta uccisa dalle forze dell’ordine, chi entra ogni volta in crisi mistica e chi sarà destinato a rimanere un corpo senza volto. Come gli incontri e come le abitudini, come i silenzi e come le telefonate fatte e ricevute, come i contrattempi e come le tante variabili di ogni giorno apparentemente identico, ma mai davvero uguale al precedente. Se non altro perché, vada come vada, mancano ventiquattrore in meno al ritorno dell’amore.
Marco Romagna