LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO (1976), di Pupi Avati
“Se ti senti solo te ne regalo uno“
(Lidio, offrendo a Stefano un topo come amico)
Il riso è dei matti. Quello smodato, interminabile, che si fa sempre più sottile nel suono fino a digrignarsi, stridere, comprimersi. Il riso è del Diavolo, forma di rovesciamento e dissacrazione del rigore richiesto dalla dedizione religiosa. Il riso magari prende vita da enormi labbra rosse, giocose e provocanti, che alludono a una sensualità corrotta e malata. La malattia: La casa dalle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati, srotolato in una preziosa copia in 35mm al Science+Fiction di Trieste nell’ambito della retrospettiva dedicata a FantItalia, è un film malato come pochi altri si sono visti nella storia del nostro cinema. Malato di tanti morbi diversi, percorso da tali e tante pulsioni sotterranee che si scuotono sotto la superficie della campagna più rassicurante. E’ un film stratificato, densissimo di motivi, venato di numerose suggestioni, che si avvitano tutte quante intorno a un gigantesco rimosso socio-culturale. E’ un film, anche, che affonda come pochi altri nel sostrato più schietto della cultura popolare e provinciale italiana, nella cultura orale, nella leggenda locale, nell’armamentario socio-antropologico di credenze e fiabe oscure. Ché in Italia ci piace(va) tanto narrare racconti spaventosi ai bambini prima di dormire, primo seme del controllo sociale, al quale la paura non può che portare grandi contributi. Sbaglia chi assomma genericamente quest’opera fondamentale nella filmografia avatiana a una predilezione italiana d’epoca per il giallo, mystery, thriller, horror di matrice argentiana. L’opera di Avati vede la luce sì in quegli anni, ma assolutamente non come rapido prodotto di sfruttamento commerciale di un filone affermato. Attiene bensì a un proprio immaginario, si lega coerentemente a un percorso autoriale, scaturisce da una precisa identità culturale. Avvinto a doppio filo alla cultura di provincia, il cinema di Pupi Avati resterà in essa ben radicato per larghissima parte della sua produzione. Racconti di città e paesi stanchi e sonnacchiosi, di tempo perso e goliardia. Racconti anche di spaventi di paese, di torbide leggende, di umori e affezioni.
Frutto di una collaborazione tra Avati e suo fratello Antonio (con l’aggiunta di Gianni Cavina e Maurizio Costanzo per la sceneggiatura), il soggetto è innanzitutto originalissimo nella sua sostanza narrativa; chiamato a restaurare l’affresco rovinato di una chiesa di campagna, il ben educato Stefano giunge nel Ferrarese, in un paesello nelle Valli di Comacchio, e si confronta con la storia dell’artista locale Buono Legnani, morto pazzo suicida e conosciuto in paese come il “pittore delle agonie” poiché ossessionato dal raffigurare persone in via di spirare, nell’estremo tentativo di fermare su tela il momento del trapasso, l’imprendibile punto di congiunzione tra vita e morte. L’affresco da restaurare ha come tema a sua volta il San Sebastiano, ritratto con accenti estremamente concreti e violenti, a cominciare dal pieno rilievo dato al sangue che zampilla dalle ferite. Sempre più incuriosito dalla storia del pittore, Stefano si scontra a poco a poco in paese con un muro di omertà che scende sul destino dell’artista e delle sue due sorelle, legati da un rapporto malsano e incestuoso. E come già accaduto ad altri che prima di lui si sono messi a indagare, Stefano viene scambiato per pazzo…
Pupi Avati dà libero corso a un catalogo di malattie di provincia evocando prima di ogni altra cosa una chiarissima dimensione di “anticultura”. Sulla superficie un paesello chiuso, gretto, sospettoso e silenzioso: sotto, pratiche indicibili, strusci col Maligno, figure derivate direttamente dalla fantasia popolare. Sperando di non rivelare troppo del finale, accanto a nani e tarati di vario genere esplode infatti in tutta la sua pregnanza leggendaria l’uomo-donna, essere androgino/ermafroditico che è moderna incarnazione di mitologie ancestrali. La casa dalle finestre che ridono è infatti saldamente costruito su un immaginario pagano, che radica la struttura del giallo non sulle consuete psicopatologie da cinema italiano anni Settanta, bensì nella viva realtà di un contesto socio-antropologico. Paganesimo, figure appartenenti a una sorta di mitologia naturale, sacrifici umani: e non ultimo, una riflessione estremamente originale su vita, arte, creazione, fede religiosa e blasfemia. Intorno alla figura del pittore Legnani si annoda un groviglio di umori malsani, che annoverano l’arte come impulso malato accanto al sacrilegio e all’incesto, non a caso calato nell’ambientazione fortemente sincretica della cultura contadina, crocevia di religione e superstizione e sede di un erotismo eccessivo e primigenio. Un sesso malato e represso che già affiora con chiara evidenza nelle pulsioni di Lidio, lo scemo del villaggio costretto a un’eterna condizione di chierichetto, che si mangia i topi e sfiora (o forse compie) uno stupro in prefinale. Sesso malato e represso che si trasforma poi in chiara materia di profanazione della “legge naturale” tramite il rapporto incestuoso tra Legnani e le due sorelle. D’altra parte, il Diavolo è stato rappresentato spesso con le mammelle, segno della sua androginia. E la mammella che spunta sul finale vale quanto un paio di corna rosse. In più, non è da dimenticare l’insistenza su figure di anziani, a loro volta smitizzate nella loro convenzionale bonarietà e ricodificate come esseri mostruosi, viscidi e perturbanti. Ma ancor più interessante appare la riflessione di Avati sulla creazione artistica, non vista come attività prometeica o come promanazione divina, bensì come appropriazione di vite altrui. L’arte è prima di tutto morte, sofferenza, follia, delirio, ed è sofferenza inflitta ad altri. L’arte è un canale blasfemo tra vivi e morti, l’estremo tentativo di creare un ponte tra di loro, è riesumazione, profanazione di tombe. E’ anche vampirizzazione di altre vite. La creazione artistica non è dare la vita, bensì toglierla. La creazione è martoriare se stessi, il proprio corpo, e/o il corpo di altri.
Su tale corposa materia narrativa Pupi Avati costruisce un film dai tempi semplicemente perfetti, che stecca soltanto nel rapporto tra Stefano e l’amata Francesca, ma che per il resto si affida con grande sapienza ai ritmi di un mystery di enorme complessità narrativa. Più che al sangue e alle sequenze di omicidi Avati si affida alle atmosfere inquietanti, che alternano un bel gusto crepuscolare negli esterni alle cadenze più consuete di tetre ville antiche, contenitori di segreti, infestate da strani rumori e voci. Estremamente sapiente risulta anche la progressione del racconto verso la dimensione allucinatoria, in cui è sempre più difficile distinguere la realtà oggettiva dal probabile delirio del protagonista Stefano che inizia a dubitare di se stesso (o meglio, di cui tutti in paese iniziano a dubitare, in un territorio ambiguo tra sincerità e omertà). In tal senso, nella sequenza più macabra e malata (la scoperta in soffitta), Avati ricorre a luci sfumate, si direbbe con effetto flou, ed eccessive nel loro bagliore, sovraesponendo l’immagine e affidandola a un efficace piano-sequenza in soggettiva, estremamente produttivo nell’ordine della resa di un “delirio reale”. Allo stesso modo Avati mostra grande sagacia nell’uso di suono e qualità della grana, esordendo con uno degli incipit più inquietanti della storia del cinema non solo italiano, in cui una vecchia registrazione di voce chiaramente psicotica, evidentemente percorsa da un malsano impeto di piacere, è sostenuta da una colonna-video sgranata che racconta un corpo martoriato dalle coltellate.
Fa davvero strano rivedere questo film e ripensare alla deriva del cinema di Pupi Avati degli ultimi trent’anni. Perché La casa dalle finestre che ridono fa paura, tanta, con estrema economia di mezzi espressivi. E spaventa così tanto perché parla di orrori ben conosciuti, noti a chiunque abbia mai bazzicato la provincia italiana e abbia raccolto qualche racconto popolare. Di quelli per l’appunto che ti raccontavano da bambino prima di dormire, per non farti più dormire. Avati rasentava il mystery e l’horror ma in essi risultava decisivo e personale l’accento grottesco, ben percepibile nel finale in cui cinico e beffardo vanno a braccetto. Ridendo, sogghignando. Cattivi.
Massimiliano Schiavoni