«Non deve succedere mai più», dice sin da subito l’avvocatessa Anne, esperta proprio di diritto minorile, al figliastro Théo dopo il loro primo e incestuoso amplesso, dopo l’estasi mistica dell’orgasmo, dopo quello scoppio di una passione proibita, sbagliata, perversa, eppure impossibile da reprimere in una vita ormai piatta per sentimenti e per abitudini. Tanto che ovviamente non potrà in alcun modo essere l’ultimo, quel primo incontro fra i loro corpi con cui Catherine Breillat, a dieci anni esatti di distanza dalla sua ultima regia, trova nella personale rielaborazione della sinossi che fu del danese Dronningen – Queen of Hearts (2019) di May el-Toukhy (non un semplice remake, ma una completa riscrittura della sceneggiatura in funzione del differente sguardo, fino a un finale totalmente diverso ma forse ancora più agghiacciante nella sua alienata impossibilità di soluzione) la chiave per tornare al suo cinema torbido, scandaloso, crudo, trasgressivo, controverso, fatto di desiderio femminile e di centralità del sesso nello scoprirsi e nel rifiutare gli schemi e le imposizioni sociali, di differenze d’età e di incesti, di prime volte e di violenze, di perversioni e di vite distrutte. Un cinema estremo (per quanto i registi accostati nel corso degli anni alla cosiddetta New French Extremity, Breillat compresa, non abbiano mai abbracciato la definizione né si siano mai sentiti afferenti a un vero e proprio movimento condiviso), anche quando, come in questo L’Été dernier, o se si preferisce il titolo internazionale Last summer, in italiano Ancora un’estate, il sesso è simulato e molto meno esplicito di altre volte, quasi relegato ai limiti del campo nella sostanziale pudicizia delle inquadrature fisse con cui la regista, con un occhio al Warhol di Blowjob, preferisce mettere in scena e insistentemente esplorare i volti, le loro espressioni, le loro emozioni, le loro sensazioni fisiche e psicologiche. Tanto nell’attrazione e nella reciproca seduzione quanto soprattutto mentre si appartengono e gemono, protesi nella tensione estatica di un erotismo consapevolmente colpevole che è al contempo piacere e dolore, euforia e vergogna, bruciante passione e devastante rimorso. Un erotismo che si carica lentamente, goccia a goccia, sguardo dopo sguardo, parola dopo parola, gesto dopo gesto, tensione dopo tensione, malizia dopo malizia, per poi deflagrare nella perdita del controllo e nelle sensazioni più libidinose, nella brama del piacere e nella gelosia, ma anche nella tenerezza e nell’affetto, nell’illusione e nella disperazione più nera. Nel vortice della passione ma anche nella consapevolezza dell’asimmetria, anagrafica e sociale (la parola di un giovane scapestrato e con precedenti contro quella di una stimata avvocatessa minorile), del loro rapporto. Eppure non ci sono mai reali rimpianti, in questa parabola di un’estate pruriginosa e socialmente scabrosa, nemmeno nell’ipocrisia della menzogna e nei residui più inarrestabili del desiderio, nemmeno nel tentativo di reprimersi e di fingere di odiarsi, nemmeno nella finzione quotidiana con cui salvare le apparenze di una famiglia a costo di far passare il ragazzo per mitomane e di abbandonarlo o quasi al suo destino. C’è il tentativo di fermarsi in quella relazione inaccettabile, certo, specialmente dopo essere stati beccati dalla sorella «migliore amica» di Anne che fugge via orripilata ma prima o poi tornerà e di certo non parlerà, e c’è la ferma negazione anche dell’evidenza per insabbiare il tutto dopo la confessione di Théo al padre, c’è l’aperta manipolazione di un marito a cui mentire per convincerlo che a mentire sia stato chi gli ha detto la verità, c’è il patteggiamento legale con il giovane e il suo avvocato per non essere denunciata. Ma non c’è mai un vero e condiviso piegarsi della protagonista alle gabbie deontologiche e comportamentali della società borghese e ai personaggi volutamente funzionali che ne fanno parte, ce n’è solo la consapevolezza e la necessità di continuare a galleggiare, di mantenere il segreto, di non esporsi allo stigma familiare e sociale. Ma anche di problematizzare, di stratificare, di capire, di cercare la profondità dialettica soprattutto nel pruriginoso, proprio dove viene aprioristicamente esclusa dalla possibilità di dibattito. Del resto non ha mai cercato in carriera giudizi, sterili moralismi o provocazioni fini a se stesse Catherine Breillat, ma semmai identità che si formano e si ridiscutono attraverso il sesso, doppiezze, esplorazioni, fughe, sentimenti. Femminilità libere che emergono mai prone al precostituito, magari destinate all’infelicità ma ancora in grado di ascoltare i propri impulsi, i propri ormoni, il proprio cuore. Nell’amore, nell’odio, nell’eccitazione, nel cinismo, nel lavoro, e poi ancora nel desiderio e nell’instabilità emotiva ed esistenziale. Nell’ambiguità di un brivido che continua a bruciare lungo tutto il corpo e che al contempo raggela il fondo dell’anima quando si torna dentro casa e ci si rimette nel letto con il marito.
È un film di vibrante carnalità e di progressivi avvicinamenti L’Été dernier, di segreti inconfessati e di contatti sempre meno innocenti, di fughe in monopattino verso il fiume e di tatuaggi artigianali con cui sfiorarsi e iniziare già a inoltrarsi sotto la pelle. Un film di colpe e di contraddizioni, sospeso fra l’attrazione e le manipolazione, fra l’eccitante e il proibito, fra l’orgasmo e il dolore, fra la tenerezza e la frenesia, fra il sentimento e l’egoismo. Fra la protezione minori da allertare per le clienti e il minore con cui iniziare una relazione adulterina e intrafamiliare. Fra la necessità di proteggere la propria vita di donna in carriera e l’istinto di viverla forse per la prima volta, fino ai sensi di colpa nei confronti di una giovane esistenza distrutta, ma anche all’impossibilità di restare lontani e non ricominciare da capo. Un film in cui giocare insieme fino a quel bacio nemmeno troppo improvviso, fino ai lunghi sospiri e agli (in)arrestabili gemiti dei coiti, ma anche all’alienazione delle convenzioni borghesi in cui è impraticabile e ingiusto farsi incasellare ma che in qualche modo bisogna almeno fingere di accettare per sopravvivere, e poi alle lacrime di disperato desiderio e di frustrazione, di crisi esistenziale, di ubriaca malinconia, di impossibilità di continuare a reprimersi, di impossibilità di non stare male. Un lavoro, presentato fra le ultime luci del concorso del Festival di Cannes 2023, perturbante e stratificatissimo, straordinario nel solleticare e nel far sentire per questo sporco e in colpa lo spettatore, che lo sguardo di Catherine Breillat e la mimica maliziosa di Léa Drucker, radiosa e conturbante nello splendore dei suoi cinquant’anni, si caricano rispettivamente sulle spalle con una visione autoriale coerentissima e con una prestazione semplicemente sontuosa di fronte alla macchina da presa, nella quale l’attrice si immerge anima e corpo nelle ambiguità e nelle scissioni esistenziali di Anne, nei suoi impulsi e nelle sue contraddizioni, nel suo lavoro per la protezione dell’infanzia e nella sua opposta relazione proibita con il diciassettenne figlio di primo letto del marito, appena giunto in casa con loro dopo tanti anni e non pochi guai passati con la madre a Ginevra. Eppure nemmeno la sua capacità manipolatoria e “avvocatesca” nel saper ribaltare a proprio favore le apparenze – «è troppo facile confessare, ripulisce la coscienza» – potrà evitare a entrambi gli strascichi di dolore della separazione e del ritorno allo status quo, lei (in)felice e inappagata nella sua casa e nella sua “normalità” senza più emozioni, e lui ancora più sconfitto ed emarginato nei suoi sguardi maliconici dietro a un vetro, nel suo ritrovarsi ingiustamente addossata la colpa di una bugia mai detta, nei suoi dilemmi esistenziali e nelle sue sempre maggiori instabilità affettive. Sempre ammesso che ci possa essere una reale separazione, nel bruciare istintivo e irrefrenabile del loro cercarsi, nel non riuscire a non cedere alla passione, in quei baci e in quel sesso in cui – a differenza che in quello ormai meccanico col marito – per ritrovare la lussuria non serve parlarsi e scandire epifanie erotiche del passato, ma basta guardarsi in silenzio, basta un sospiro, basta un’espressione del volto, basta una lacrima, basta sedersi vicini su un letto, o magari ritrovarsi in giardino e nel capanno. Basta un pomeriggio in cui fuggire dalla noia e dagli ospiti del padre e marito per ritrovarsi a riflettere sulle diverse vite sessuali delle generazioni («mia madre è cresciuta con la liberazione sessuale, io con l’AIDS che l’ha annullata, e ora tu sei giovane»), basta una giovane e bellissima ragazza «che va e viene, i sentimenti non sono per me» a scatenare definitivamente i pensieri più lubrichi della matrigna, basta un cartone animato da guardare insieme sul cellulare quando ormai la tensione sessuale è tangibile, ineluttabile, irrefrenabile, pronta a esplodere. Basta un registratore a microcassette con cui intervistarsi e con cui interrogarsi sull’identità, tanto di coppia («Non c’è nessun noi», «Per me sì»), quanto personale (l’aborto in gioventù di Anne che le ha impedito di poter concepire altri figli ma solo di poter adottare le due gemelline asiatiche che scorrazzano per casa, probabilmente collegato alla sua gerontofilia giovanile opposta alla pedofilia semi-incestuosa della maturità, e alla sbandata del tempo per quell’amico di sua madre di cui invece parla suadente al marito per eccitarlo, mentre con Théo rifiuta di esporsi troppo per mantenere il suo vantaggio negli sbilanciamenti della relazione, non raccontandogli la sua prima volta e omettendogli quei dettagli che sembrano avvicinare il suo passato al presente del figliastro nei suoi confronti). Basta sorridere insieme nella decappottabile, mentre si riportano a casa le bambine dalle giornate in famiglia al lago, e poi non sorridere più dopo il bacio d’addio, quando l’ultima estate è ormai finita (?) e verrà il tempo dei ricatti reciproci, della possibilità del minorenne Théo di denunciare il plagio, delle prove in mano ad Anne che è stato proprio lui a compiere il furto nella casa. Ma anche di un nuovo Cartier al polso, come se nulla fosse successo, a ostentare una felicità familiare inesistente, o per lo meno illusoria, falsa, impossibile. Ipocrita come la borghesia più bacchettona, dalla quale magari ancora una volta fuggire per poi ritrovarsi ancora lì, ancora più colpevoli, ancora più alienati, ancora più soli. Tanto impegnati a cercare di nascondere, archiviare e dimenticare l’accaduto, bollandolo come un errore e una sbandata, da non rendersi nemmeno conto di come sia in realtà lo specchio della propria identità e della propria esistenza, l’unico momento di reale sincerità con se stessi, quel fremito in cui riscoprirsi finalmente vivi. O più probabilmente sapendolo benissimo, e sapendo benissimo di non poterne (più) fare a meno.
Marco Romagna