«Se dovete sbattere le palpebre, fatelo adesso»
Kubo and the two strings, tradotto in italiano con la soluzione più semplice (per non dire stupida) e direttamente fantasy “Kubo e la spada magica”, è l’ennesimo sforzo della casa di produzione Laika, dopo i successi ottenuti con La sposa cadavere (2005) di Tim Burton e Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick e poi con i meno ambiziosi e più leggeri ParaNorman (2012) di Sam Felle e Chris Butler e Boxtrolls – Le scatole magiche (2014) di Graham Annable e Anthony Stacchi. La Laika, in mano a Philip Knight e a suo figlio Travis, regista di Kubo, entrambi figure chiave (per quanto può sembrare assurdo) nell’amministrazione e nella direzione aziendale della Nike, è una casa di film d’animazione dedicata principalmente al recupero della stop-motion, tecnica d’animazione detta in italiano “passo uno” che è stata resa grande e importante nel panorama cinematografico mondiale a partire da autori come Segundo de Chomón, Jiří Trnka, Will Vinton (tra i fondatori della Laika), Jan Švankmajer, Terry Gilliam, i fratelli Quay, Stefano Bessoni, Kihachirō Kawamoto, i già citati Burton e Selick e soprattutto Ray Harryhausen. Il passo uno, che consiste nel riprendere fotogramma per fotogramma il movimento di oggetti inanimati, dunque animandoli, è stato largamente utilizzato in passato anche nei grandi blockbuster delle icone, da King Kong a Indiana Jones, per creare l’effetto speciale, quello che adesso è, immediatamente e senza neanche pensarci due volte, creato in digitale, da dietro un computer, almeno da Jurassic Park (1993) in poi. Kubo segue questa scia, mischiando la stop-motion alla CG nel tessere una narrazione complicata e densissima, tra gli apici di questa Festa del cinema di Roma.
La frase d’apertura di questa recensione è la frase con cui si apre il film stesso. In un Giappone antico, Kubo “narra” l’inizio del film parlando direttamente al pubblico e facendo entrare gli spettatori immediatamente in una logica pseudo metafilmica, una logica che pare davvero necessaria nella de-scrizione del genere stop-motion, anche solo per uno sketch dopo i titoli di coda (il momento più alto di Boxtrolls, ad esempio); con questa tecnica, la storia già si dipana come una finta leggenda, un meraviglioso monito per il pubblico di bambini che alle leggende già così si può (e si deve) facilmente appassionare. Questa sua voce narrante richiede allo spettatore di osservare tutto con la massima attenzione, per non perdersi neanche un secondo della storia: la prima occasione in cui questo invito, più volte ripetuto nel film, viene recitato è nel prologo, in cui la madre di Kubo porta il figlio in fasce attraverso l’oceano durante una tempesta, venendo travolta da un’onda che le causa un danno al volto e al cervello, portando il piccolo Kubo, privo dell’occhio sinistro, a farle da badante per il resto della sua vita. Il film si sposta subito avanti nel tempo, mostrando un Kubo che si prende cura della madre e passa le giornate nel villaggio più vicino suonando lo Shamisen, strumento tradizionale giapponese a tre corde, e creando attraverso di esso magie che spiegazzano, muovono e fanno svolazzare i fogli fino a creare personaggi e storie mitologiche per intrattenere i contadini, tutte storie legate alla figure di Hanzo, grande guerriero samurai che ha combattuto contro il Re della Luna e le sue due figlie — quello che però i contadini non possono sospettare è che Hanzo è il padre defunto di Kubo, e che il Re della Luna è il suo nonno materno, un semi-dio cieco che ha rubato l’occhio sinistro a Kubo quand’era bambino per renderlo più simile a sé stesso, e se Kubo uscisse di casa di notte verrebbe subito visto dal nonno che lo vuole trascinare a sé. Ma quando Kubo viene in effetti trovato dalle sue zie, comincia la sua surreale avventura attraverso la natura, accompagnato da una scimmia e da uno scarafaggio semiumani, alla ricerca dell’armatura da samurai tanto agognata dal padre in gioventù.
Kubo si può declinare, banalizzando, in un puro e modesto recupero folkloristico, che utilizza la stop-motion (un metodo di animazione datato, anche se sempre affascinante) come versione “antica” dell’animazione da sovrapporre alla leggenda, al mito, al Giappone medievale – più o meno come ha fatto Takahata con La storia della principessa splendente (2013) o Tomm Moore con Song of the Sea (2014), riprendendo invece il folklore irlandese, componendo dunque un’ideale trilogia d’animazione sulla necessità odierna di credere nelle leggende, nella loro attualità, nella loro importanza per noi a livello poetico e viscerale. Ma parlare del film semplicemente come di un gioco sul mito e sulle storie tramandate nel folklore sarebbe limitante per la sua potenza visiva ed emotiva: pur avendo una narrazione e un senso dell’umorismo che a volte scendono nel convenzionale (ma è inevitabile e quindi non irritante, per un film d’animazione che è anche per i bambini), Kubo riesce sempre a sorprendere, anche nei suoi colpi di scena più o meno telefonati, a causa della gestione dei tempi e degli spazi, tra un climax ascendente (quasi videoludico) nelle scene d’azione, che vanno dal cupo all’epico al tragico, e di un legame mai irritante o mieloso alla sfera della memoria e della necessità del ricordo: e qua il ricordo non è più quello della tecnica d’animazione del passato o quello del Giappone medievale, bensì quello di coloro che muoiono e che ci lasciano, ma che rimangono perché noi, in quanto esseri umani, possiamo ricordarli. È un film sulla famiglia, sulla memoria e sul simulacro, è sicuramente un qualcosa di antropocentrico, ma è anche una morale importante per i bambini e soprattutto per gli adulti, in questo mondo cinematografico che a volte sembra rovinato dal nichilismo generalizzato degli autori di nicchia: riscoprire attraverso un’avventura l’importanza del ricordo, l’importanza della vita contro la morte e volendo contro l’immortalità (e, da questo punto di vista, il finale enfatico ed esplicito è anche un controcampo del finale poco riuscito di quello de I racconti di Terramare (2007), occasione sprecata firmata dal figlio di Hayao Miyazaki, Goro). Lo scontro finale è stato considerato dalla critica e dal pubblico statunitensi un anti-climax per la mancata epicità della vicenda a livello puramente fisico e violento, ma è lì che viene dato un significato profondo al titolo originale, perché è lì che si risolve tutto il discorso sulla famiglia e sulla necessità umana, è lì che viene messo in scena in definitiva lo scontro tra stop-motion e CG (dopo scene e scene in cui, invece, sembravano andare di pari passo: tipo gli uccelli di carta insieme agli uccelli di piume) ed è lì che il Re della Luna si trasforma da banale topos del cattivo anziano a figura umana, antitetica, tramutando una specie di scontro uomo-Dio in un semplice incontro uomo-uomo. Tra un tempio/fortezza in rovina pieno di cadaveri che rimanda la mente a Ran (1985) di Kurosawa e un mostro-scheletro di cui viene mostrato passo dopo passo il movimento, tra la musica del compositore pisano Dario Marianell e i titoli di coda sulle note di While my guitar gently weeps dei Beatles rifatta da Regina Spektor, si naviga nell’enfasi, nell’epicità – e tutto ciò sotto la luce di un cinema meraviglioso e purissimo, quello dell’unica grande casa di animazione americana oltre alla Disney (e con essa la Pixar, chiaramente), un cinema che destruttura con la bellezza visiva dell’immagine la lotta tra il bene e il male e i valori della famiglia, creando una delle storie più lacrimevoli e commoventi viste in sala quest’anno.
Nicola Settis