KUBI (2023), di Takeshi Kitano
Il periodo Sengoku, che va dal 1467 al 1603, rappresenta una fase particolarmente sanguinaria della storia del Giappone, con una serie interminabile di guerre che contrapponevano i vari signori feudali. Alla fine a predominare fu Tokugawa Ieyasu che riunificò il paese, nella battaglia di Sekigahara, sotto il suo shogunato (il governo militare) dando vita all’epoca Edo, un lunghissimo periodo di pace. Curiosamente il cinema non si è occupato molto dell’era Sengoku. I film chanbara (ovvero il genere di cappa e spada, parte consistente del genere di ambientazione storica, il jidaigeki) sono perlopiù ambientati in epoca Edo, quando paradossalmente la casta dei samurai era in declino, essendo cessata la loro utilità in quanto guerrieri. Le storie tradizionali di samurai in effetti sono quelle con eroi solitari, basate su vendetta e onore, poco compatibili con contesti bellici che peraltro richiedono produzioni ingenti. Non a caso tra i pochi film di epoca Sengoku annoveriamo i grandi kolossal di Akira Kurosawa quali Kagemusha e Ran, sfarzosissime e magniloquenti ricostruzioni di quell’epoca. Da ricordare anche Il fiume Fuefuki, film del 1960 di Keisuke Kinoshita, il regista considerato “rivale” di Kurosawa, dalle scene belliche pure spettacolari, e un recente film, visto all’ultimo Far East Film Festival, The Legend & Butterfly di Keishi Otomo. A misurarsi con l’epoca Sengoku, e con questi illustri precursori cinematografici, è ora Takeshi Kitano con il film Kubi, 首. È evidente un senso di sfida in questa ambiziosa operazione, come a voler essere in grado di confezionare scene di guerra di grande forza spettacolare, come in Ran. E il confronto con Kurosawa è anche dichiarato nel materiale promozionale del film, prodotto per questa sua presentazione al 76mo Festival di Cannes, dove si racconta che il soggetto, già pronto nel 1993 all’epoca di Sonatine, fu fatto vedere all’anziano regista che avrebbe lodato Kitano, affermando che sarebbe stato in grado di realizzare un film di samurai al livello dei suoi.
Kitano, al suo diciannovesimo film, il suo secondo jidaigeki dopo Zatoichi, e al primo film dopo l’uscita dall’Office Kitano, costruisce un romanzo storico attorno alla morte del potentissimo signore feudale Oda Nobunaga, avvenuta nel tempio di Honno-ji, causata dal clamoroso tradimento del suo vassallo Akechi Mitsuhide. L’incidente di Honno-ji – così è passato alla storia l’evento, del 21 giugno 1582 – ha diversi punti oscuri molto dibattuti, come dibattuto dagli storici è anche il motivo del tradimento di Akechi. Kitano costruisce una storia di intrighi, dove tutti i vassalli vorrebbero fare le scarpe al proprio padrone, e si inventa una relazione omosessuale di Akechi con un altro ribelle, Araki Murashige. Mette dentro tutti i personaggi storici dell’epoca, compreso il maestro della cerimonia del tè Sen no Rikyu. E tiene per sé la parte di Toyotomi Hideyoshi, altro vassallo, quello che poi vendicherà il signore.
Come si è detto, il soggetto risale al 1993, prima realizzato nel 2019 in forma di romanzo e ora come film vero e proprio. Kitano ha evidentemente aspettato la disponibilità di una grossa produzione, qui garantita dalla Kadokawa Corporation, cui si è rivolto dopo il divorzio dall’Office Kitano. Kubi in effetti porta molto di quel sapore del cinema basilare del regista, che proprio in quegli anni si stava definendo. Dobbiamo solo sostituire le katana, le spade dei samurai, alle pistole e ci troviamo davanti il tipico yakuza movie del regista. Uno sguardo incredibilmente cinico, e ironico, una propensione alla mattanza, l’estetica iperviolenta, qui resa dalla sovrabbondanza di decapitazioni. E poi il senso dell’estrema labilità della vita, dei samurai come dei gangster. Il celebre colpo di rivoltella con cui Murakawa si toglie la vita alla fine di Sonatine, o volendo il pressoché identico finale di Outrage Coda, trova qui l’equivalente nel seppuku, il suicidio rituale dei samurai. E l’immagine di poesia macabra del cadavere nel fiume, dai cui fuoriescono i granchi che stanno banchettando con la carne di quelle spoglie, appare l’apice dell’estetica grandguignol del film. I granchi peraltro tornano nell’immaginario classico nipponico, relativamente a una storica e sanguinosa battaglia avvenuta in un altro momento di guerre intestine del paese, quella, navale, di Dan-no-ura (1185): vuole la leggenda che i granchi portino sul dorso i volti dei guerrieri morti che giacevano in fondo al mare dopo quel conflitto. Episodio peraltro evocato nel film d’animazione di recente uscita Inu-Oh. Lo stesso titolo del film, Kubi che significa “collo”, allude alla facilità con cui questa parte del corpo viene recisa nel film, già enunciata nel titolo con l’immagine del relativo ideogramma viene come tagliata.
Lo spirito del primo Kitano annega però nel kolossal, nell’ambizione di voler essere il nuovo Kurosawa. Come si è detto, il progetto è in definitiva pretenzioso. Kitano ci butta dentro di tutto, i grandi personaggi storici (non solo) dell’epoca, i ninja, l’omosessualità che è un richiamo al film Tabù/Gohatto di Nagisa Oshima, che aveva voluto la figura di Kitano per l’iconica ultima scena. Addirittura, una scena di combattimento acrobatico sembra ispirato alle tipiche scene di lievitamento del genere wuxia cinese. Kubi è un film di intrighi, di lotte intestine per il potere, ma non riesce a raggiungere quell’epos shakespeariano assimilato invece da Kurosawa. E fa i conti con una narrazione davvero farraginosa, difficile da seguire anche per uno storiografo giapponese. La montagna non ha partorito il topolino, sarebbe quantomeno ingeneroso affermarlo, perché Kubi è indubbiamente godibile. Ma si percepisce la perdita di quello spirito innovativo e indipendente degli anni d’oro dell’Office Kitano.
Giampiero Raganelli