Sappiamo da tempo che la sezione Orizzonti di Venezia ormai non è più una sezione dedicata ai film “del futuro”, ai nuovi veri e propri Orizzonti dell’arte cinematografica mondiale; è ormai più che altro un calderone in cui inserire ciò che altrove non è collocabile o presentabile. È come se fosse un fuori concorso con premi, non una sezione collaterale tematica. Certo, ogni anno ci sono le sorprese e i momenti più o meno illuminanti, e possiamo sicuramente pensare ad alcuni dei film che quest’anno hanno in effetti vinto premi, come Caniba da una parte e Los versos del Olvido dall’altra, ma spesso ci ritroviamo a confermare la vacuità e l’inutilità di altre scelte, altre presenze, altri pezzi dall’altra parte dello schermo e dello spettro qualitativo. Krieg ne è un esempio talmente plateale da meritare davvero poche parole e poco approfondimento discorsivo, e ce ne dispiace. Il regista tedesco Rick Ostermann identifica con un titolo altisonante come “Guerra” una storia che in realtà la guerra non la mette mai in campo, evocandola solamente attraverso voci e fantasmi distanti. Una struttura che alterna un ipotetico presente a sadici e prolissi flashback, con la stessa programmaticità televisiva di Lost, segue il protagonista, un anziano padre tedesco, pacifista e privo di una vera e propria identità, che, perso il figlio in un’ipotetica guerra universale contro “gli uomini barbuti” (il richiamo all’Isis è tanto anonimo da diventare ricattatorio, superficiale), si rintana in una capanna nel bosco, sommersa nella bianchissima neve, dialogando a tratti con se stesso e più spesso, attraverso l’azione, con un misterioso e irrealistico individuo che gli entra in casa, distruggendo il suo arredamento, ferendo il suo cane, sparandogli a distanza. La guerra richiama la guerra, e si ripete dai contesti pubblici (distanti, percepibili solo attraverso le immagini del computer e le lettere) a quelli privati, da un mondo invisibile e scenograficamente inesistente a una radura naturalistica svuotata da qualsiasi orpello.
Ci spiace porci con termini così semplici, immediati e banali, ma in effetti il problema di Krieg è uno e uno soltanto: la sua completa assenza di originalità. Certo, ci sono degli schermi archetipali che il cinema può o deve rimettere in campo in continuazione, e sono le piccole variazioni a identificare le grandi differenze, i cambi di passaggio e di inquadratura, la grandezza dei piccoli progetti e delle piccole ideologie artistiche. Krieg non fa niente per spostarsi dal cadaverico immobilismo in cui è costretto sin dal soggetto. La retorica sin troppo esplicita del demone della guerra, che risucchia in sé qualsiasi atteggiamento fino a esplodere in momenti che vengono evidenziati persino da un punto di vista strettamente dialettico, è diventata talmente stereotipata a causa del cinema di guerra americano, e ciò in particolare in tempi recenti (v. The Hurt Locker, American Sniper), da aver perso la propria credibilità, la propria potenza. Se non si percepisce la guerra, non si ottiene la guerra, se non si riesce a immaginare l’orrore, non si percepisce l’orrore, se non si riesce a mettere in immagini cinematografiche la potenza di un Male che rimane sempre fuori campo, la potenza del fuori campo svanisce, lascia spazio al vuoto pneumatico, siderale. Cosa rimane? Una lotta tra uomo e natura, o meglio tra uomo e uomo con l’illusione di un pericolo nella natura, un film privo di qualsivoglia coraggio, in cui i possibili personalismi registici sono offuscati dalla completa carenza di capacità analitiche e narrative. L’esplosione interiore non è percepita come una crisi esistenziale ma come un salto nel nulla, un’incapacità nella comprensione di cosa può essere l’uomo cinematografico. E, come spesso può essere nel cinema più derivativo e stanco, tutto il resto, come direbbe Franco Califano, è noia – inclusi i lutti e i conseguenti piagnistei.
Quello che rimane alla fine del film è la sensazione di aver assistito a qualcosa di talmente privo di sostanza da essere soporifero e dimenticabile. Aver deciso di scrivere di Krieg qualche giorno dopo il festival è stata per il sottoscritto una scelta di cui già è quasi impossibile non pentirmi. Il film scompare, finisce per diventare quasi un ricordo, un piccolo sogno, che evapora ed evapora fino a non esistere più. Il problema dei festival del cinema è che, pur essendo un paradiso per ogni spettatore appassionato, tendenzialmente portano a questi momenti assurdi, tra l’amnesia e l’incubo, tra il romanticismo e l’apocalisse. La guerra tra immagini diventa anche una guerra contro il tempo, una guerra contro gli ipotetici Orizzonti del Lido che non sono più, davvero, veri Orizzonti. Krieg è l’illusione di un futuro per il cinema che non dovrebbe essere minimamente auspicabile. Sennò, ci potremmo trovare in sala ogni giorno ad assistere a una parata di mostri di banalità, e a questo punto le visioni evanescenti ed ectoplasmatiche dell’ambiente festivaliere smetteranno di essere visioni ma apparizioni, destinate a scomparire nella nostra memoria o nella memoria della Storia. Krieg è pericoloso non perché è un film stupido o inutile, bensì perché dimostra una tendenza stupida e inutile, lontanissima anni luce dai motivi per cui il cinema esiste. E ci dispiace, perché non è un film cattivo o eticamente sbagliato, non è un film da accusare, da portare in tribunale; semplicemente, non è un film per come noi intendiamo il termine “film”.
Nicola Settis