11 Agosto 2019 -

KRABI 2562 (2019)
di Ben Rivers e Anocha Suwichakornpong

Ben Rivers è un regista londinese, un autore un po’ alieno, suggestivo quanto borioso, assiduo collaboratore di Ben Russell e Gabriel Abrantes che viene sovente definito sperimentale “for lack of a better word”, come dicono negli USA. È sperimentale nel senso che cerca forme nuove e strutture nuove, ma in fin dei conti la sua idea di cinema non valica alcuna soglia insuperabile, non sposta le montagne né spezza regole o catene. Lo abbiamo molto ammirato per A spell to ward off the darkness, anche forse apice della carriera del qui co-regista Russell, un documentario su una comune che sfociava nel racconto pastorale di un viandante nella natura, concludendosi con degli impressionanti piani sequenza durante un concerto black metal: un lavoro tra realtà e finzione suggestivo, teorico nel risultato ma puramente impulsivo come visione, con un’aura misteriosa ed esoterica. In egual misura era affascinante il successivo The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, film di finzione diviso in due, tra il reportage del making of di un altro film e il racconto angosciante e mitologico di un rapimento che diventa un rituale di fuga e liberazione. Erano entrambi sforzi interessanti che esprimevano uno sguardo, sospeso tra gli esordi dell’atmosferico ma acerbo Two years at sea e di Ah, Liberty! e il futuro di collaborazioni e multimedialità che si sarebbe aperto di lì a breve. Ma in generale, più che un grande autore del cinema contemporaneo, è un ‘underdog’, che osserva da lontano, entra ed esce dai riflettori, non propone mai qualcosa di nuovo ma solo immagini diverse con cui leggere racconti mondani. La tailandese Anocha Suwichakornpong è, invece, al suo terzo lungometraggio, dopo Mundane History e Dao Khanong, che l’hanno proposta al pubblico internazionale come un’apologa del vuoto, con un senso della narrazione caotico e squilibrato e ossessioni religiose e psichedeliche, che sfociano nel metacinema. Entrambi i film sono esperienze forse pedanti e confuse, ma alla fine sono degli arricchimenti nella cultura dell’immagine, che propongono un percorso simbolico nella visione più grande del nostro immaginario cinematografico e filosofico.

La collaborazione tra i due, Krabi, 2562, è un’opera sfaccettata e complessa, ma si propone con la facciata di qualcosa di semplice. La base è un divertissement, che barcolla ubriaco tra finzione e documentario come molti film di Rivers e che racconta l’incontro tra la tecnologia del cinema e la natura come l’opera della Suwichakornpong. È ambientato in Thailandia, tra spiagge, laghi, rocce, alberi. Succedono poche cose, molte grottesche. È quasi una cartolina della Thailandia, che mette in campo un’aura rustica che convive con il mistico, l’oltremondo – caratteristica comune nel cinema del paese, come ci ricorda sempre Weerasethakul. In questo sguardo d’insieme sull’esistenza Thai, il vuoto sembra conquistare tutto: cinema vuoti, mari vuoti, una donna che scompare nel nero più totale, una realtà vuota e un intreccio vuoto. Il rustico diventa intimo e l’intimo diventa, in fin dei conti, noia; ma per quanto la visione sia faticosa, nel film rimane interessante il metodo più che l’esperienza stessa. L’approccio dei due registi assieme sembra sempre di più formare progressivamente un film “nato per caso”, in cui una trama fatta sostanzialmente solo di attimi vacui e contrasti grotteschi tra simboli diventa il fragile scheletro di quello che altrimenti sarebbe un qualsiasi impersonale documentario d’osservazione. Il mezzo cinepresa indugia nella rappresentazione della natura, dei volti, della quotidianità, tentando di dare vita allo spazio inquadrato con la casualità dell’improvvisazione, cercando la poesia nell’attimo, nella pellicola, nell’esistenza pura e semplice. È lontano l’individuo-mondo di A spell to ward off the darkness, perché stavolta al centro non è più un portavoce della crisi dell’uomo bensì un luogo che porta con sé i propri individui e con loro i loro demoni, fantasmi, falli di legno, dita mozzate e gli indigeni primitivi che si specchiano negli sguardi dei thailandesi moderni. I dialoghi sono brevi o prolissi ma quasi sempre corrispondono unicamente a dettagli didascalici di informazioni secondarie: l’unico film che esiste è quello sotto la superficie, l’interstruttura di micro-accorgimenti filosofici che va oltre la sovrastruttura e la struttura, che come di consueto danno corpo al percorso della visione e che qui invece cullano lo spettatore, senza trascinarlo o violarlo.

Per la Suwichakornpong è un percorso diverso: non è l’individuo che diventa spazio, quanto il tempo della storia che smette di schiacciarsi e comprimersi per aprirsi ad altro, preferendo gestirsi con un semi-realismo lineare che spoglia l’immaginario del film di quei tocchi visionari che rendevano i suoi lungometraggi precedenti degni di nota. Mentre dunque per Ben Rivers è una continuazione parzialmente deludente ma tutto sommato fluida, per la Suwichakornpong Krabi, 2562 risulta di più un passo indietro, un tentativo povero di esplorare territori sconosciuti. Rimane un’opera con una sua pesantezza ingiustificata, e un racconto i cui simboli sono troppo deboli per davvero mischiarsi con i sentieri autoriali dei due registi. L’approccio profondamente giocoso nei confronti della materia filmata rimane più interessante e conforme al dare senso all’operazione se vediamo effettivamente il film come questo, un’ipotesi di goliardia, un racconto che subisce una metamorfosi stilistica insieme al progredire inatteso di un mero viaggio. Oltre c’è poco, o almeno l’apparenza di una pochezza, ed è forse in quest’asciuttezza che si cela il mondo immersivo di fantasmi e simbologie che i due registi volevano raccontare; sono riusciti nel compito di costruire qualcosa di unicamente autocannibalizzante, ma alla fine dei giochi forse hanno fallito nella dimensione in cui il racconto merita una trasposizione in cui ogni porta apre nuove potenzialità, e invece di sbaragliare ogni dogma con verve visionaria spesso le grandi idee sembrano involontariamente prede di una deludente chiusura sintomatica del racconto.

Nicola Settis

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